giovedì 8 dicembre 2011

Il Derby club cabaret

C'era una volta, in una grande città, un giovane ristoratore di nome Gianni con il pallino del teatro. Gianni ci va molto spesso e finisce così con l'imparare a memoria la scaletta e il cast di tanti spettacoli. I genitori del ragazzo hanno da poco comprato un piccolo ristorante alla periferia della grande città. Gli affari, però, non vanno troppo bene, ma Gianni ha un'idea: farne un locale dove incontrarsi per ascoltare musica. Già, ma se l'idea è di Gianni, a comunicarla ai genitori è Angela, la sua amata. E' così che ha inizio la favola.


C'era una volta il Derby clicca su una foto

DA GO-GO A DERBY - Intorno alla palazzina liberty di via Monte Rosa 84 c'è un gran via vai di gente: gli architetti chiamati a raccolta da Gianni e Angela Bongiovanni ancora non sanno che quello che stanno arredando diventerà presto il tempio del cabaret milanese. Al primo piano sono i tavoli apparecchiati della zona ristorante ad accogliere i clienti, mentre nei quarantacinque metri quadrati che costituiscono lo scantinato, spuntano divanetti e puff neri. In fondo alla sala, una pedana sorregge un pianoforte e una batteria. La vicinanza dell'ippodromo di San Siro attira giornalisti sportivi e scommettitori incalliti: nella piccola cantina l'odore di sigari e whisky si confonde con il sapore amaro delle sconfitte, mentre pochi fortunati ridono e bevono sulle note malinconiche del jazz. Il vecchio Gi-Go, poi Whisky a gogò, viene ribattezzato Derby.

COLTRANE E QUINCY JONES - Una sera, a quel pianoforte nero, si siede uno che la musica la conosce bene: si chiama Gianfranco Intra ed è uno dei maggiori jazzisti italiani. E' il 1962 e il Derby diventa Intra Derby Club, un nome all'americana che richiama nel locale «pezzi grossi» come Charles Aznavour, John Coltrane e Quincy Jones, solo per citarne alcuni. Il ristorantino del «Bongio» (è questo il soprannome affibbiato al nostro Gianni), comincia a riscuotere un certo successo. Sono gli anni del boom economico e la gente vuole svagarsi, ecco perché quando il chitarrista Franco Cerri si mette a raccontare qualcuna delle sue storielle, il pubblico del Derby applaude divertito. Nella cantina di via Monte Rosa bazzica anche un giovane dottore di Milano, che canta di un cane con i capelli e dell'ombrello di suo fratello. E' qui che Enzo Jannacci conosce Dario Fo e improvvisa numeri con il duo Cochi e Renato e con «La pattuglia azzurra» di Massimo Boldi e Teo Teocoli.

LA PRIMA VOLTA DI BOLDI - A poco a poco la musica lascia il posto alle gag di comici alle prime armi, ignari che quel palcoscenico li avrebbe lanciati nel mondo della televisione e del cinema. Nasce così, quasi per caso, il Derby Club Cabaret. Cinque numeri a sera, di mezz'ora l'uno, con Angela dietro il bancone a controllare che tutto vada bene e che il debuttante di turno faccia ridere. La prima volta che Massimo Boldi sale da solo sul palco è un fiasco incredibile, ma il Bongio è lì a dirgli di non scoraggiarsi, consolandolo con una delle sue tipiche frasi: «Prova a pensare… bon! Sei avanti vent'anni».

SALVI NELLA SPAZZATURA - Sono tanti i nomi che si alternano su quella pedana: da Lino Toffolo a Felice Andreasi (entrambi di Torino), da Tony Santagata all'avvocato occhialuto Walter Valdi, da Bruno Lauzi a Paolo Villaggio, dai veronesi I Gatti di Vicolo Miracoli (Jerry Calà, Franco Oppini, Nini Salerno, Umberto Smaila, Mallaby Spray), a Mauro Di Francesco, Claudio Bisio, Antonio Catania, Giorgio Faletti, Enzo Iacchetti, Paolo Rossi. C'è chi, come Enrico Beruschi, viene al Derby tutte le sere a raccontare barzellette ai comici, finché qualcuno non lo spinge sul palco ed è un successo; o chi, come Francesco Salvi, debutta con indosso un sacco della spazzatura; il pubblico non ride e lui corre per strada vestito così, con il Bongio che lo insegue!
Tutti ricordano almeno un po' di tremolio alle gambe, prima di scendere quei fatidici trenta gradini. E tutti ricordano Rosa, sorella di Angela, addetta al guardaroba. Viso dolce, sorriso gentile, Rosa ha una parola d'incoraggiamento per ognuno di quei ragazzi.

IL «TERRUNCIELLO» DIEGO - Anche suo figlio lavora lì: di giorno frequenta (non troppo assiduamente) l'Istituto tecnico industriale e la sera si occupa delle luci. Quando sale sul palco parla come uno dei tanti immigrati pugliesi che frequentano i bar di Milano, dando vita al personaggio del «terrunciello». Mamma Rosa è in imbarazzo e, quando Renzo Arbore le si avvicina durante una serata, chiedendole chi sia quel ragazzo, non dice che è suo figlio. Suo figlio Diego. Diego Abatantuono.

IL «CONFESSIONALE» DI CRAXI - Tra i clienti del Derby c'è la «Milano bene»: schiere di avvocati, industriali, politici e sportivi siedono l'uno accanto all'altro. Spiccano i nomi di Charlie Krupp, delle omonime acciaierie, del miliardario Rocky Agusta, di Gianni Rivera e di Bettino Craxi, prima in veste di «semplice» politico, poi di Presidente del Consiglio, unica differenza la scorta. Al noto socialista, Gianni riserva un piccolo privilegio, quello del «confessionale», ovvero un armadio dove custodisce le bottiglie lasciate a metà, con tanto di etichetta che ne segna il livello, per evitare che i ragazzi ne approfittino! Le bottiglie vengono così servite la volta successiva.

Le gemelle Kessler con Mina e Raffaella Carrà, nel programma «Milleluci» (1974)
BELLEZZE E BANDITI
- Dal Bongio sono di casa anche Mina e Alberto Lupo, Renato Rascel e Walter Chiari, Mastroianni e le Kessler, Giorgio Strehler, Paolo Grassi e gli attori del Piccolo, e ancora Enzo Tortora e Mike Bongiorno, Johnny Dorelli e Augusto Martelli, Ricky Gianco e Beppe Recchia, Mennea e Vandelli. Anche qualche malavitoso cena nella cantina di via Monterosa, ma nessuno ci fa caso, nemmeno quando a pagare il conto è il bandito Francis Turatello. Come dimenticare poi il «Bistecca», così soprannominato, perché in cambio di qualche bella battuta, che i comici ripropongono subito al pubblico, si fa offrire, per l'appunto, una gustosa bistecca!

SEDIE ANCHE SUL PALCO - I numeri di dilettanti allo sbaraglio si alternano a veri e propri spettacoli, con tanto di cartellone, come quelli messi in scena da Jannacci («La tappezzeria»), o da Sandro Massimini («Più crudele di Venere»). A volte i centocinquanta posti a sedere del Derby non sono sufficienti ad accogliere il pubblico, allora si aggiungono sedie persino sul palcoscenico. Dietro le quinte ci sono loro, i «pistolati», i fortunati artisti che si sono guadagnati la benedizione del Bongio. Tra di loro gli scherzi sono la norma; di certo, però, non scherza l'infuriato Giorgio Faletti quando dice di voler strangolare Paolo Rossi, perché pensa che gli abbia rubato una battuta!
I volti di Zelig clicca su una foto per andare alla galleria

UNA NUOVA AVVENTURA? - Procede tutto bene fino al 1981, anno in cui Gianni si ammala. E' ricoverato all'ospedale Sacco, e la sua stanza è tutta tappezzata delle vecchie locandine che hanno scandito il tempo del tanto amato Derby. Dopo la sua morte, Angela manda avanti il locale con l'aiuto del cognato. Le cose, però, sono cambiate: oltre all'aumento dell'affitto e ai diritti da pagare alla Siae, teatro e televisione si stanno appropriando del cabaret come genere e il Derby inizia il suo lento declino, per poi chiudere definitivamente nell'86. Oggi, nella vecchia palazzina liberty, che ha ospitato tanti giovani talenti, ci sono i ragazzi del centro sociale Cantiere. Il Derby Club Cabaret ha passato il testimone allo Zelig di Gino e Michele, ma la signora Angela non nasconde il desiderio di lanciarsi in una nuova avventura. La favola non è ancora finita.

Le informazioni sono tratte dal libro «Il Derby Club Cabaret», a cura di Margherita Boretti e Angela Bongiovanni

domenica 13 novembre 2011

Il miracolo scippato

Agli inizi degli anni sessanta, l'Italia vantava alcuni poli di eccellenza scientifico-tecnologici che il mondo le invidiava in quattro settori strategici: informatico, petrolifero, nucleare, medico. Oggi, in pieno terzo millennio, è il fanalino di coda tra i paesi più sviluppati proprio per scarsità d'innovazione e ricerca. Perché? Un libro-inchiesta ricostruisce la storia di quattro casi emblematici del modello di sviluppo avviato e smantellato in quegli anni a tempo di record, evidenziando il filo rosso che li lega e che spiega perché ciascuna di quelle esperienze è fallita. Il caso Olivetti, il caso Mattei, il caso Ippolito e il caso Marotta, vale a dire nascita e morte della rivoluzione informatica che ha portato alla progettazione del primo pc e dei primi microprocessori del mondo; inizio e fine dell'autonomia energetica del paese, oltre che della competizione col monopolio angloamericano del petrolio; soppressione del Cnen, che ci aveva portato al terzo posto per produzione di energia elettrica di origine nucleare; decapitazione dell'Istituto superiore di sanità, che fece dell'Italia uno dei primi tre produttori di penicillina grazie anche all'invenzione del microscopio elettronico. Quattro incubatrici di un modello di sviluppo economico e sociale basato sulla ricerca scientifica, gettate alle ortiche tra le faide politiche interne e le pressioni e i sabotaggi internazionali in piena guerra fredda.

Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni Sessanta
Autore Pivato Marco
Prezzo su IBS
Sconto 15% € 15,30
(Prezzo di copertina € 18,00 Risparmio € 2,70)
Dati 2011, VII-197 p., brossura
Editore Donzelli (collana Virgola)

martedì 1 novembre 2011

Arte Povera



La mostra presentata al MAMbo, dal titolo Arte povera 1968, curata da Germano Celant e Gianfranco Maraniello, trae spunto da una delle prime esposizioni tenutasi proprio a Bologna nel ‘68 alla Galleria de’ Foscherari e offre una propria peculiare lettura delle origini dell’Arte povera e dello specifico filone legato all’editoria storica e attuale.
Vengono presentate al pubblico alcune delle opere esposte durante la mostra storica così come altre che testimoniano dell’attività svolta dagli artisti negli anni, cui si aggiunge una selezione di materiali editoriali concernente il movimento e i suoi contributi linguistici.
Il percorso espositivo prende avvio con uno spazio introduttivo dal titolo Gli artisti dell’Arte povera fotografati da Paolo Mussat Sartor, 1968 -1986 in cui è visibile una selezione di ritratti realizzati dal grande fotografo. Successivamente il visitatore accede all’imponente Sala delle Ciminiere, in cui sono esposti nella parte centrale e in quella sinistra lavori di Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Pascali, Paolini, Penone, Pistoletto, Prini e Zorio, tra cui alcuni già in mostra nel 1968 da de’ Foscherari.
Dal lato destro della sala si accede alla sezione Bologna 1968, specificamente dedicata alla mostra storica, con documenti originali e opere di Mario Ceroli, Alighiero Boetti e Gianni Piacentino. L’area successiva I libri secondo l’Arte povera 1966-1980, a cura di Giorgio Maffei e Corraini Edizioni è completamente dedicata all’editoria.
L’esposizione si conclude con il film documentario Arte povera (2000, durata 28’30”), a cura di Beatrice Merz e Sergio Ariotti, edito da Hopefulmonster. Per tutta la durata della mostra, il MAMbo ospita una serie di incontri legati agli specifici temi affrontati e volti a presentare i progetti editoriali che il museo ha dedicato ad alcuni esponenti dell’Arte povera.

Istituzione Galleria d'Arte Moderna
Comune di Bologna Via Don Minzoni, 14
40121 Bologna
http://www.mambo-bologna.org/mostre/mostra-85/
24 settembre-26 dicembre 2011

sabato 29 ottobre 2011

Hugo Pratt e il Sgt.Kirk


La carriera di Hugo Pratt è già di per sé un romanzo e vi invitiamo a ripercorrerne le tappe seguendo il link del titolo (da cui è tratto il brano seguente):
"La svolta importante nella carriera di Pratt avvenne però con l'incontro con Florenzo Ivaldi: era il 1967 e i due decisero di aprire una rivista, dal titolo Sgt.Kirk, dove pubblicare le storie argentine del cartoonist, alcuni classici americani e degli inediti. Sul primo numero della rivista, il primo inedito ad esordire fu proprio Una ballata del mare salato, la prima avventura di Corto Maltese, il più famoso ed importante personaggio di Pratt. La narrazione, come la maggior parte delle avventure del suo personaggio, rimanda la memoria ai grandi romanzi d'avventura di Conrad, Melville, Lewis, Cooper, Dumas, che tanto successo e tanta fama hanno avuto presso generazioni di lettori. Ma soprattutto a ispirare Pratt per questa storia fu uno scrittore oggi dimenticato, Henry De Vere Stacpoole, autore di Laguna Blu. Questa prima storia, autentica pietra miliare del fumetto, fu successivamente ristampata anche sulle pagine del Corriere dei Piccoli."
A Pratt sono state dedicate due grandi mostre proprio quest'anno: una a Parigi e una a Lugano, conclusasi il 2 ottobre, e Lucca gli ha dedicato un centro internazionale di studi.

mercoledì 26 ottobre 2011

Aggiornamenti



La pubblicazione sopracitata ci è stata segnalata da un lettore; questo ci dà l'opportunità di precisare che il blog (che già conta circa 130 articoli) è un'opera aperta ai contributi dei lettori e che anche gli articoli "vecchi" vengono aggiornati periodicamente proprio come ogni enciclopedia che si rispetti.

Come in tutti i blog è possibile abbonarsi per ricevere gli aggiornamenti via mail, in più è possibile consultare il sito di riferimento www.nostalgiadei60.net e scrivere all'autore raf@nostalgiadei60.net.

domenica 16 ottobre 2011

Quaderni piacentini

I «quaderni piacentini» hanno costituito un caso, abbastanza raro in Italia, di una rivista politi-co-culturale di sinistra, non legata ai partiti, correnti o gruppi, che per circa vent’anni fu il luogo naturale d’incontro e di dibattito della nuova sinistra, e che nel 1968-69 divenne strumento di elaborazione e diffusione delle idee del movimento studentesco.

La rivista nacque nel 1962, in pieno miracolo economico, mentre erano in corso grandi mutamenti nell’economia e nella società e cominciava ad affermarsi anche in Italia l’industria culturale. Sul suo indirizzo politico iniziale influirono le idee che in quel periodo si andavano dibattendo in piccoli gruppi marxisti di tendenza operaista: i «Quaderni rossi» di Raniero Panzieri, «classe operaia» di Mario Tronti e Alberto Asor Rosa, il gruppo cremonese che faceva capo a Danilo Montaldi. Franco Fortini, amico di Panieri e vicino ai «Quaderni rossi», fu più di ogni altri prodigo di consigli e di collaborazioni fin dalla primissima fase. Ma l’originalità, la spregiudicatezza e l’indipendenza della rivista furono merito esclusivo di Pergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, i due giovani intellettuali piacentini che la inventarono e la gestirono.

I primi due fascicoli, ciclostilati, uscirono nel marzo e nell’aprile 1962: avevano rispettivamente 16 e 36 pagine, tiravano circa 250 copie e costavano 100 lire. Il numero 1 si presentava «a cura dei giovani della sinistra», mentre nel numero 1 bis Bellocchio compariva come direttore. I primi numeri si occupavano in parte anche dei problemi cittadini, ma l’impronta di novità e di freschezza era data dal tono anticonformista dei commenti sociali e di costume (nella rubrica «Il franco tiratore»), dalle recensioni e segnalazioni di libri, che erano spesso stroncature, e dalla rubrica «Libri da leggere e da non leggere», mantenuta fino al numero 36. Nei primi tre anni, benché la diffusione fosse fatta in prima persona dai redattori e da pochi amici, la rivista registrò una crescita costante: crebbe il numero di pagine, la tiratura e le vendite aumentarono progressivamente da 1.000 a 2.500 copie, fra i collaboratori comparvero Franco Fortini, Sergio Bologna, Giovanni Giudici, Goffredo Fofi, Giancarlo Majorino, Luciano Amodio, Edoarda Masi, Roberto Roversi, Mario Isnenghi, Alberto Asor Rosa. Un salto di qualità e di diffusione avvenne nel 1965, con i numeri 23-24 e 25: il primo conteneva Un colloquio con Ernesto De Martino di Cesare Cases, seguito da un commento di Fortini; il secondo, la densa rassegna di Renato Solmi, ricca di originali spunti teorici, su La nuova sinistra americana, che contribuì a immettere nella cultura della nuova sinistra un filone di idee e comportamenti politici praticamente sconosciuto. Con il numero 25 la diffusione aveva raggiunto le 3.000 copie. Il numero 28 (settembre 1966), che registrava l’ingresso nel comitato direttivo di Goffredo Fofi, da tempo assiduo collaboratore della rivista, pubblicò le Considerazioni sul materialismo di Sebastiano Timpanaro; nel numero 29 uscirono la Difesa del cretino di Fortini e un inedito di Panzieri; nel numero 30 le Note sulla rivoluzione culturale cinese di Edoarda Masi; il numero 31 (luglio 1967), quasi interamente dedicato a Imperialismo e rivoluzione in America Latina e redatto in collaborazione con i «Quaderni rossi» e «classe e stato», contribuì alla ulteriore diffusione della rivista, soprattutto fra i militanti del nascente movimento studentesco. I quattro fascicoli pubblicati nel 1968 (numeri 33-36) consacrarono il successo politico e commerciale della rivista: il numero 33, che conteneva fra l’altro Contro l’Università di Guido Viale, esaurì in pochi giorni le 8.000 copie di tiratura. I numeri successivi, e tutti quelli usciti nel 1969-70, ebbero una tiratura di 13.000 e una circolazione reale di oltre 10.000 copie, in gran parte fra i militanti del movimento studentesco. Gli abbonati arrivarono a 3.500.

La rivista, che aveva nel frattempo arricchito la parte più propriamente letteraria e culturale, offriva una vasta documentazione sui grandi eventi di politica internazionale, ma soprattutto materiali e analisi sulle lotte operaie e studentesche in Europa e in Italia, talora dissonanti e spesso critiche nei confronti della tendenza del movimento a frazionarsi e rinchiudersi in gruppi ideologici (basti ricordare, sul numero 34, Il dissenso e l’autorità di Fortini e, sul numero 38, Contro la falsa coscienza nel movimento studentesco di Ciafaloni e Dònolo). Il numero 43 (aprile 1971) formalizzò l’ingresso nel comitato direttivo di alcuni collaboratori abituali: Luca Baranelli, Bianca Beccalli, Francesco Ciafaloni, Carlo Dònolo, Edoarda Masi, Michele Salvati, Federico Stame; a questi in seguito si aggiunsero Giovanni Jervis e Alfonso Berardinelli.

Nonostante un’inversione di tendenza nelle vendite – fra 8.000 e 9.000 copie fino a tutto il 1976, circa 5.000 nel 1980 - «quaderni piacentini» continuò ad essere per tutti gli anni Settanta un punto di riferimento per militanti e quadri della sinistra. Le analisi e gli interventi di Ciafaloni, Salvati e Stame (per citare i commentatori più assidui) furono per molti un appuntamento e un termine di confronto. Nel 1980, con il numero 74 – pubblicato, come i due precedenti, dalle edizioni Gulliver di Milano con un raro quanto rilevante editoriale del direttore Bellocchio (Riflessioni ad alta voce su terrorismo e potere) – si chiuse la prima serie della rivista. Per dissensi sull’indirizzo politico e culturale erano frattanto usciti dal comitato direttivo la Masi e Ciafaloni; altri si dimisero nel 1980 ritenendo esaurito il ciclo vitale della rivista.

Una nuova serie di «quaderni piacentini» fu pubblicata dall’editore milanese Franco Angeli fra il 1981 e il 1984 (quindici numeri in tutto). Il comitato direttivo era inizialmente composto da Bianca Beccalli, Piergiorgio Bellocchio, Alfonso Berardinelli, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, Giovanni Jervis, Michele Salvati, Federico Stame. Nel 1983 si aggiunsero Gad Lerner, Franco Moretti, Roberto Moscati e Stefano Nespor.

mercoledì 21 settembre 2011

Poesia visiva

Nei primissimi anni sessanta numerosi artisti si interessano contemporaneamente alle potenzialità espressive della parola, accompagnata dall'immagine, dando vita a quel movimento artistico che verrà poi denominato poesia visiva. A Firenze, nel 1963 dall'incontro tra Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, nasce il Gruppo 70, al quale successivamente prenderanno parte anche Lucia Marcucci, Ketty La Rocca, Luciano Ori, seguiti da Mirella Bentivoglio, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Michele Perfetti e Sarenco. Poesia visiva - mostre I poeti visivi si rendono conto che sia la letteratura sia l'arte stavano utilizzando un linguaggio eccessivamente lontano da quello comune, decidono così per colmare questa distanza, di creare un moderno volgare, il cui lessico proviene dall'ambito della comunicazione di massa, cioè dai quotidiani, dai rotocalchi, dalla pubblicità e dai fumetti. Il fine è duplice: raggiungere un pubblico sempre più vasto, grazie all'alto grado di decifrabilità e allo stesso tempo esorcizzare il potere dei mass-media. La tecnica che risulta più congeniale per raggiungere questo risultato è il collage che permette, tramite il riutilizzo di testi e immagini provenienti dal mondo dell'informazione, un impatto immediato e forte. L'Italia non è l'unico scenario dove la ricerca artistica fra parola e immagine prende piede, anche se gli si può riconoscere una sorta di primato. In altri parti d'Europa infatti artisti come Julien Blaine, Jean Francois Bory, Hans Clavin, Alain Arias Misson, Paul De Vree sviluppano sperimentazioni simili, stabilendo rapporti di scambio e collaborazione con gli operatori italiani della poesia visiva. Sempre in Italia si sviluppa una particolare tendenza, denominata Nuova Scrittura, interessata a creare un rapporto tra letteratura e pittura. Il termine è coniato nel 1967 da Ugo Carrega uno dei fondatori del gruppo.

In mostra a Bologna dal 21 settembre 2011

domenica 4 settembre 2011

Il folk del Greenwich Village

Carolyn Hester è una delle figure di punta del movimento folk esploso nei ’60 al Greenwich Village di New York. Sostenitrice del movimento per i Diritti Civili, la Hester è responsabile anche dell’esordio discografico di un Bob Dylan appena diciannovenne, che la folk singer volle come chitarrista/armonicista sul suo primo disco per la Columbia. Tra i suoi album ricordiamo Carolyn Hester, At town hall, Magazine, Warriors at rainbow, Texas songbird. Sul palco di Festivaletteratura, accompagnata dalle figlie Amy e Karla, la Hester terrà un concerto durante il quale riproporrà materiale del periodo d’oro del Greeenwich, nuove canzoni e alcuni brani di Dylan.

Carolyn Hester chitarra; Amy Blume basso; Karla Blume chitarra, piano.
Teatro Bibiena di Mantova alle 21.15 del 9 settembre 2011



lunedì 15 agosto 2011

John Maynard Keynes

John Maynard Keynes. Nella sua opera più importante “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” del 1936, Keynes critica i fondamenti dell’economia “classica”, in particolare l’idea che il mercato tenderebbe spontaneamente a creare l’equilibrio fra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione delle unità di lavoro disponibili. Keynes, invece, attribuì allo Stato il compito di accrescere il volume della domanda effettiva e inoltre, attribuì anche allo Stato il compito di creare la piena occupazione tramite l’aumento della spesa pubblica. La condizione preliminare di queste manovre era l’abbandono del mito del bilancio in pareggio: la spesa pubblica poteva essere finanziata anche col ricorso ai deficit di bilancio (politica del deficit spending) e con l’aumento di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste procedure sarebbero stati compensati dai benefici che le spese statali avrebbero arrecato al reddito e alla produzione. Proprio secondo i modelli economici di Keyenes, l’economia occidentale venne riorganizzata dopo la seconda guerra mondiale per la ricostruzione. Negli anni ’50 e ’60 del ’900, l’economia dei paesi industrializzati attraversò un periodo di sviluppo senza precedenti anche grazie alle politiche statali in sostegno della crescita. Esempio eclatante delle nuove politiche economiche fu la Gran Bretagna, dove nel dopoguerra, il governo laburista nazionalizzò la Banca d’Inghilterra, le industrie elettriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche. Questo genere di politica si sviluppò in maniera più o meno simile in tutta Europa.[3]

[3] Il Novecento,G.Sabbatucci-V.Vidotto, Roma,Laterza,2010

martedì 5 luglio 2011

Autogrill Pavesi

Mario Pavesi e l'arch.Angelo Bianchetti

L'origine dell'Autogrill si deve alle vicende comuni di tre aziende alimentari che hanno giocato un ruolo fondamentale nella storia moderna dell'alimentazione industriale italiana: Motta, Pavesi, Alemagna. Il primo Bar Motta apre a Milano nel 1928, tra piazza Duomo e la Galleria Vittorio Emanuele. Nel 1933, sempre in piazza Duomo sull'angolo con via Torino nasce il Bar Alemagna. Finita la seconda guerra mondiale le tre aziende si lanciano sul mercato della ristorazione autostradale inaugurando nuovi negozi e autogrill in tutta Italia. Nel 1947 sull'autostrada Milano-Novara apre un piccolo chiosco di ristoro che nel 1962 viene sostituito da una nuova struttura a ponte che può così servire chi viaggia nei due sensi di marcia sulla Milano-Torino: è il primo autogrill Pavesi.

Si deve agli architetti Angelo Bianchetti, Melchiorre Bega e Carlo Casati la progettazione e creazione degli Autogrill a ponte che si incontrano lungo le autostrade italiane: il primo lavorava per la Pavesi, il secondo per la Motta, il terzo coordinava invece il progetto per la Società Autostrade per l'impatto della struttura a ponte dal punto di vista paesaggistico.

Il 30 agosto 1976 dalla fusione dei rami d'azienda della ristorazione stradale di Motta, Pavesi e Alemagna e dalla contemporanea acquisizione da parte della SME, Gruppo agroalimentare controllato dall'IRI e a partecipazione statale, nasce a Novara Iscar S.p.A. che nel 1986 diventerà Autogrill S.p.A..
Fonte: wikipedia s.v. autogrill
In tempi in cui gli acquisti a self-service  in Italia erano ancora una rarità, l'Autogrill costituiva una sorta di viaggio nel viaggio, un luogo di incontro, un tuffo nella modernità.

sabato 2 luglio 2011

Carosello



Per il cast di "Salomone pirata pacioccone" vedi:
http://www.mondocarosello.com/html/fabbri_1966.html

In un' estate del 1983, Marco Giusti, il futuro autore di Blob e studioso di cinema e pubblicità, entrò nel reparto Sacis di via del Babuino: scopo immediato realizzare per la Mostra del Cinema di Venezia un montaggio di Caroselli d' autore. Finirà per restare molto più a lungo del previsto tra pizze e moviole, schedando vent' anni di telecomunicati. Un' ossessione (nello stesso periodo in cui viveva sommerso a via del Babuino, Giusti conobbe sua moglie: e alla domanda di rito del futuro suocero: "Che lavoro fa, giovanotto?", fu costretto a dire la verità: "Guardo Carosello"). Oggi l' ossessione è diventata libro: anzi, Il grande libro di Carosello, che esce per Sperling & Kupfer (pagg. 620, lire 49.000). Non un saggio, ma un preziosissimo catalogo di tutte le serie realizzate, divise per ditte di committenza e accompagnate dai nomi di agenzia, casa di produzione, autori, realizzatori, interpreti, anni di messa in onda, con "codino" di valutazione dove si segnalano culto, interesse, fascino, ricordo. "Ricordo è la parola chiave, a proposito di Carosello", dice Giusti. "Per chi ha più di 35 anni Carosello è la televisione ed è l' infanzia. Perché dentro c' è tutto, come nel mondo duplex di Nembo Kid: c' è il cinema, c' è la radio, il varietà, la televisione stessa, l' industria con le invenzioni dell' Italietta di allora. C' è il Moplen e accanto, magari, Moravia (intervistato da Mike Bongiorno per lo shampoo Plix, nel 1957, ndr). E tu, bambino, eri parte integrante dello show in quanto spettatore privilegiato: un effetto del genere esiste soltanto per Stanlio e Ollio, che sono sempre stati "visti", dai tuoi genitori come dai tuoi figli, e sono sempre uguali a se stessi. Diciamo che cambiano soltanto i modi di ricordare: nostalgico quello dei quarantenni, rivalutativo in chiave trash quello dei trentenni. Ma anche chi è bambino oggi non sfugge a Carosello. Striscia la notizia, che è il suo vero erede, ha assunto la stessa funzione: il teatrino, brevissimo, che segna la fine della giornata. E' soltanto una questione di orario? "Naturalmente no. Il fascino di Carosello, oltre che nella sua caratteristica di mini-palinsesto, sta nella gara. E' una cosa che ho capito adesso, mentre preparo per Mario Maffucci e Pippo Baudo uno spettacolo su Carosello che andrà in onda su Raiuno. Baudo ha avuto l' idea di strutturare il programma come una gara. E lo era: da bambino, alla fine di ogni Carosello, io dividevo gli spot in belli e brutti. Esattamente quello che volevano i suoi ideatori: Carosello significa proprio torneo di cavalieri. Ma ha anche altri significati: in napoletano è la palla di creta di un antico gioco di origini arabe, oppure è il salvadanaio. E carusiello è il bambinetto con la testa ancora pelata. Insomma, nel nome c' è già tutto: il bimbo, i soldi, il gioco, il torneo, Napoli. Straordinario". Dentro Carosello c' erano molte altre cose: per esempio fior di scrittori e di registi dell' epoca. Oggi la collaborazione di un intellettuale ad uno spot non sarebbe così pacifica, o sbaglio? "No, ma semplicemente perché i pubblicitari non saprebbero cosa farsene, mentre probabilmente gli intellettuali accetterebbero subito. In quegli anni il rapporto fra la casa di produzione e la ditta era molto casalingo, padronal-familiare. Il cavalier Gazzoni dell' Idrolitina e Marcello Marchesi si sfidavano a trovare le rime. Scrivevano autori di varietà, come Terzoli e Vaime, Garinei e Giovannini, ma anche Malerba, ma anche Campanile, ma anche giornalisti del Corriere della Sera come Guglielmo Zucconi e Franco Di Bella. Francesco Alberoni era consulente della CPV e lavorò ad una bellissima serie della Barilla con Mina protagonista. Ma questo era giusto: la pubblicità integrava le idee dell' uomo di cultura, e allo stesso tempo gli dava da vivere. Le fratture sono successive: una è politica, e risale agli anni Settanta, quando si scoprì che certi registi considerati di sinistra come Amelio, i fratelli Taviani, Olmi, Maselli, Bolognini, Patroni Griffi, giravano spot. Vennero chiamati ' quelli di Motta Continua' . L' altro fattore è stato il cambiamento della pubblicità stessa, con l' arrivo delle grandi agenzie e dei creativi". Quali scoperte hai fatto visionando vent' anni di Caroselli? "Per esempio un provino a Orson Welles per la Rhodiatoce. Lo chiamò Pino Peserico, direttore della Cinetelevisione, alla fine degli anni Sessanta. I responsabili della Rhodiatoce non sapevano chi fosse, non avevano mai visto Quarto potere, e tuttavia Peserico riuscì a chiamarlo a Venezia e ad ottenere, dopo trenta whisky and soda e l' offerta di un milione, a girare un provino come protagonista. Non piacque, e la serie non si fece più. Oppure, la serie pasoliniana girata da Ettore Scola per il cerotto Johnson: aveva sempre negato di aver fatto pubblicità. Ancora, il carosello con Silvio Berlusconi, non si riesce a capire per quale ditta, ma Peserico ricorda di averlo pagato 11 mila lire. Però, più che il gusto delle scoperte, mi ha supportato quello di rimettere a posto i tasselli del mosaico. A me piace scrivere, ma a volte penso che la vera scrittura sia questa: ricostruire, catalogare, partendo dai frammenti, dando una storia a cose belle che gli spettatori ricordano, ma che l' 80 per cento delle persone che vi hanno preso parte non ricorda di aver fatto. O magari nega: senza sapere che a volte quei due minuti hanno più valore del film di due ore di cui lo stesso regista va fiero". - di LOREDANA LIPPERINI

in http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1995/10/23/storia-di-carosello-lo-spot-servito.html

sabato 25 giugno 2011

Capitalismo famigliare

Il "caso italiano" che ha portato alla tumultuosa crescita economica degli anni sessanta è caratterizzato da un paio di specificità: le partecipazioni statali e il capitalismo famigliare.
Il sistema delle partecipazioni statali è stato praticamente smantellato e qualcosa del capitalismo famigliare ancora persiste, purché si pieghi alle esigenze della finanziarizzazione dell'economia.
In questa sede citiamo un paio di libri utili a chi voglia approfondire l'argomento, entrambi di Andrea Colli:
Capitalismo famigliare, Il Mulino, 2006 155pp
La teoria economica e manageriale tradizionale e il giornalismo specializzato riconoscono alle imprese familiari (in cui una famiglia mantiene il controllo di una porzione di capitale sufficiente a influenzarne in misura significativa le strategie) una ridotta capacità competitiva, almeno al di fuori dei settori tradizionali a minore contenuto tecnologico. La loro, perciò, sarebbe una presenza residuale. In tempi più recenti, indagini empiriche, studi di business history e di economia aziendale, ma anche ricerche sociologiche, politologiche e psicologiche hanno complicato ampiamente il quadro, mettendo in luce l'estrema differenziazione nel mondo delle imprese familiari, nonché gli innegabili successi che molte di queste sono riuscite a centrare, anche in tempi assai recenti. Andrea Colli offre un'utile messa a punto della questione, muovendosi con competenza nell'enorme mole di materiali teorici ed empirici. Sottolinea come i limiti e le debolezze proprie del capitalismo familiare sono bilanciati da alcuni elementi di forza, tra cui la ricerca della stabilità, la preservazione di strategie di lungo periodo, la flessibilità e rapidità nelle decisioni e l'autonomia da risorse finanziarie esterne. Proprio queste qualità hanno consentito a quella tipologia di impresa di non esaurire la propria funzione nelle fasi di industrializzazione, ma di conservare un ruolo rilevante anche nelle odierne economie avanzate. Questo, almeno, è quanto si è verificato quando essa si è trovata a operare in contesti legislativi, politici, finanziari e culturali favorevoli. Così è accaduto in Europa continentale e in Asia, dove il capitalismo familiare persiste saldamente all'interno dei settori a elevata intensità di capitale della seconda e terza rivoluzione industriale. Esemplare, in tal senso, è il caso italiano, cui Colli dedica l'intero capitolo finale.
  Alessio Gagliardi, recensione de "L'indice"
Il quarto capitalismo.Un profilo italiano, Marsilio, 2002, 118pp.

L'indiscutibile affermazione di un ampio nucleo di imprese di dimensioni intermedie ha contrassegnato l'economia italiana degli anni novanta. La rilevanza di tale fenomeno che è stato definito "quarto capitalismo" per distinguerlo dalle imprese pubbliche dalle grandi imprese private e dalle piccole imprese dei distretti ha inevitabilmente reso necessario superare i tradizionali modelli interpretativi che volevano l'apparato industriale italiano polarizzato fra grandi attori da un lato e piccoli dall'altro. Utilizzando le analisi di numerose vicende aziendali e ricorrendo ai metodi di indagine della business history Colli tenta un inquadramento del fenomeno sinora scarsamente studiato prestando particolare attenzione alla prospettiva diacronica. La ricerca mette in evidenza la molteplicità di percorsi evolutivi ma anche il ricorrere di alcuni tratti comuni: il forte legame con l'ambiente circostante l'ampia diffusione della forma organizzativa di gruppo il prevalente ricorso all'autofinanziamento e lo scarso peso della presenza in Borsa la persistenza del tradizionale modello di proprietà e controllo famigliare e soprattutto l'accentuata internazionalizzazione che fa di queste imprese delle vere e proprie "multinazionali tascabili". Dalla lettura di queste pagine si trae l'impressione che nonostante i successi i limiti che il "quarto capitalismo" ha palesato (il rapporto problematico con la forza lavoro e la frequente assenza di un maturo sistema di relazioni sindacali la mancanza di un'azione consapevole e collettiva a livello associativo e di un rapporto solido con la politica e le istituzioni) rendano al momento scarsamente plausibile l'ipotesi che esso possa assumere quel ruolo trainante del sistema produttivo nazionale che la grande impresa non sembra più in grado di ricoprire.
Alessio Gagliardi, recensione de "L'Indice"

venerdì 24 giugno 2011

Enciclopedie a dispense

L'aumentata scolarizzazione, con l'introduzione della scuola media unica, unita alla scarsa diffusione e frequentazione delle librerie si combinarono con una soluzione assolutamente vincente: la vendita a dispense (quindi a piccole rate) di opere impegnative come le enciclopedie, nelle edicole.
Una vicenda esemplare del fenomeno è quella dei Fratelli Fabbri (vedi la voce corrispondente su Wikipedia) di cui riportiamo qui il periodo che ci interessa:

Negli anni sessanta la "Fratelli Fabbri Editori" raggiunge l'apice della sua fama proponendo, sempre a fascicoli distribuiti nelle edicole, l'enciclopedia illustrata "Conoscere". Nata nel 1958, l'enciclopedia sarà venduta a fascicoli nelle edicole, in 6 edizioni aggiornate, fino al 1963. I fascicoli venduti, raggiunsero l'astronomico numero di seicento milioni.
In quegli anni la casa editrice vende circa un miliardo e mezzo di dispense, pubblicate in decine di paesi e tradotte in 14 lingue, tra cui l'hindi, l'urdu, l'afrikaans, il turco e il bulgaro.
È anche la prima casa editrice italiana a mettere sul mercato prodotti multimediali: sia "Conoscere" sia "Capire" allegano supporti discografici e altre collane quali I grandi musicisti, Le Grandi Opere Liriche ,Grande storia della musica , proseguono l'esperienza anche affrontando problematiche sconosciute per l'epoca. Ad esempio, I grandi musicisti, al fine di rientrare nel packaging standard dell'editoria, venne commissionata alla Philips la produzione di 10 milioni di LP speciali, dal diametro di 25 centimetri.
Verso la fine degli anni sessanta, a causa della saturazione di mercato e delle agitazioni sociali, i fratelli Dino e Rino decidono di vendere le loro quote per dedicarsi ad altre attività all'estero, contrastati dal netto rifiuto del fratello maggiore.

In quegli anni il loro esempio viene seguito prontamente e le edicole si riempiono di ogni sorta di pubblicazioni, non sempre poi fatte rilegare o ultimate.

lunedì 9 maggio 2011

1960- L'anno dell'Africa

 
Con un po' di retorica, ma anche come giusto riconoscimento dell' accelerazione del processo di decolonizzazione in tutto il continente nero, il 1960 passa alla storia come l'anno dell'Africa". Ben diciassette Stati africani ottengono l'indipendenza ed entrano a far parte a pieno titolo della comunità internazionale. La decolonizzazione dell Africa diviene una realtà irreversibile. Restano anche dopo il 1960 "isole coloniali, oltre al grande bastione di colonialismo e razzismo nell'Africa australe i possedimenti portoghesi, Rhodesia. Namibia. Sud Africa), ma concettualmente e praticamente il sistema coloniale ha cessato di esistere in quanto tale. Non per niente il 14 dicembre di questo stesso 1960 l'Assemblea generale dell'ONU approva a larga maggioranza una risoluzione che condanna il colonialismo in tutte le sue forme definendolo contrario ai principi generali delle Nazioni Unite. Già il 1" gennaio c'è la prima cerimonia: a Yaounde., per sancire la fine dell amministrazione fiduciaria della Francia sul Camerun. Nuovo Stato, nuova bandiera, nuova sovranità. La "frana"  si produce nei mesi successivi proprio nei territori francesi. Nel 1956 i due raggruppamenti dell'Africa Occidentale (Aof) e Africa Equatoriale francese Aef  erano stati divisi in una decina di territori a cui era stata concessa una limitata autonomia interna e nel 1958,  nel referendum indetto per ratificare la Costituzione della V Repubblica, tutti — fatta salva la sola Guinea, che aveva votato "no", optando per la sovranità immediata — avevano votato per il mantenimento di un rapporto di tipo "comunitario (di fatto coloniale) con la Francia. Ma la Comunità franco-africana che De Gaulle si è illuso di lanciare come una specie di Commonwealth alla francese (rispetto al colonialismo inglese, il colonialismo francese ha puntato sull'assimilazione e più stretta è dunque la connessione in termini politici, economici e persino culturali fra i possedimenti francesi e la metropoli)  non riesce ad affermarsi e a durare.  Valendosi di una loro facoltà, via via tutti i governi dei territori della Comunità chiedono di negoziare l'indipendenza e nello spazio di pochi mesi, dal 20 giugno al 28 novembre, i Paesi dell Aof e dellAef. più il Madagascar. che non è membro né dell'uno né dell'altro gruppo, diventano indipendenti: fra di essi il Senegal. la Costa d'Avorio, il Gabon. il Ciad. Altri territori — oltre ai possedimenti francesi — ottengono l' indipendenza nel 1960: la Somalia, il Congo belga e la Nigeria. La Somalia è stata assegnata dall'Onu in amministrazione fiduciaria all'Italia fino al I960 e il governo italiano tiene fede all' impegno e ai tempi concordati. Al momento dell'indipendenza ( 1° luglio), l'ex- Somalia italiana decide la fusione immediata con il Somaliland britannico, pure pervenuto all'indipendenza, dando una prima attuazione al programma pansomalo. La Nigeria approda all'indipendenza il 1" ottobre dopo una complicata procedura costituzionale che ha cercato di conciliare — con un sistema federale basato sulle tre grandi regioni geografiche ed etniche in cui lo Stato è a quest'epoca diviso — l'unità e le particolarità locali. Forte di una popolazione valutata in 50 milioni di abitanti, la Nigeria, il "gigante nero", è destinata a diventare la grande potenza del continente, ma per alcuni anni (ci sarà anche la parentesi della lunga e dolorosa guerra civile seguita alla secessione del Biafra) l' assestamento sarà difficile e la sua possibilità di influenza sulla politica africana risulterà limitata. Quanto al Congo, la sua indipendenza (30 giugno) dà origine, senza soluzione di continuità, a una crisi di proporzioni internazionali: secessione del Katanga,  intervento delle truppe belghe,  invio di una forza dell'Onu. sfacelo delle istituzioni inteme.

Il giudizio che si può dare dell "anno del-l'Africa", con la prospettiva storica che è ora possibile, è assai critico. Quasi tutte le indipendenze vengono più concesse che conquistate: i governi coloniali — con l' esclusione del Portogallo, che oppone nazionalismo a nazionalismo - assecondano nel complesso il processo verso l' indipendenza per prevenire fenomeni di radicalizzazione sull' esempio dell Algeria, assicurandosi che il trapasso dei poteri vada a beneficio di governi, espressione di classi dirigenti fidate, controllabili, in grado di gestire il "neocolonialismo". È il caso soprattutto delle ex colonie francesi. Nel Congo, il tentativo di Lumumba di dare inizio — sia pure senza la preparazione politica che sarebbe necessaria — a un programma che possa rendere effettiva. se non addirittura "rivoluzionaria', l'indipendenza, finisce in una tragedia. Proprio i fatti congolesi dimostrano che l' Africa è ancora "sotto tutela".

Nell'interesse del sistema dominante, l' Africa deve graduare la sua liberazione per non sovvertire troppo drasticamente i rapporti di forza, e a questo scopo sono funzionali, sostenendosi a vicenda, sia l'ipoteca coloniale negli Stati promossi all'indipendenza, sia il colonialismo diretto nelle regioni dove sono concentrate le maggiori ricchezze e dove vivono le più compatte comunità di origine europea.

(Giampaolo Calchi Novati)

professore ordinario presso il dipartimento di studi politici e sociali dell’Università degli Studi di Pavia

Fonte: 30 anni della nostra storia ERI 1984

giovedì 14 aprile 2011

Complesso militare-industriale



Nel suo discorso d'addio il presidente degli Stati Uniti, mette in guardia la nazione contro lo strapotere del "complesso militare-industriale", espressione usata qui per la prima volta

Eisenhower's Farewell Address Jan 17, 1961

martedì 5 aprile 2011

Critica militante


Il testo è stato portato in scena di recente dalla regista Monica Conti (forse in occasione del centenario ).
Quello che ci interessa in questa sede è riportare un testo di critica dell'epoca, che potremmo definire militante e non accomodante, tanto per far sentire lo spirito del 1969.

Mutande (Le)
di Karl Sternheim
La Notte, 28 marzo 1969
Salvo errori ed omissioni, questa medesima commedia dal titolo che è tutta una promessa di palpabili godurie: Le mutande (da donna, beninteso!) l’abbiamo vista alcune estati fa all’Odeon, a firma Gigi Lunari, recitata in  milanese annacquato da Piero Mazzarella e Tino Scotti, sotto la dizione – oh, finezza! – ingentilita dal diminutivo e involgarita dal plurale: Per un paio di mutandine. Allora, dava il suono di una ritardataria pochade dialettale, fatta alla buona con materiali casalinghi unicamente per il refrigerio serotino dei bravi meneghini con le mogli al mare, rimasti nell’asfalto della città ad arrostirsi. Ora che la si dà nuovamente, sullo stesso palcoscenico, dalla Compagnia Fortunato-Fantoni, possiamo rivelare che, in realtà, si tratta di un copione germanico preespressionista, scritto dall’ebreo tedesco Karl Sternheim, qualcosa come cinquantotto anni fa, nel 1911; a intenzione crudamente satirica, figurante quale prima giornata di una trilogia che racconta la storia di una famiglia piccolo-borghese, morsa dalla tarantola dell’ascesa sociale; e che, lungo un sardonico itinerario di compromessi, ipocrisie, do ut des, colpi bassi e via discorrendo, un gradino dopo l’altro, dà la scalata alla ricchezza, alla considerazione morale, alla potenza economica, fino ad assidersi al banchetto del grande mandarinato industriale che dominava la Germania guglielmina ante prima guerra mondiale: quello, sapete, che da un verso fabbricava le bambole di porcellana che chiudevano gli occhi; e, dall’altro, i cannoni più potenti del mondo da accatastare in casa per il momento buono, battezzandoli col nome gentile delle signorine Krupp.
Quella dello Sternheim è una satira del sistema fatta, come si direbbe oggidì, da un “integrato”, all’interno del sistema stesso; era figlio di un banchiere, pensate un po’. Satira della borghesia compiuta da un borghese, in altre parole: uno dei tanti cadetti ribelli, i contestatori del tempo, nulla è nuovo sotto la volta celeste. Feroce critica sociale non priva di teutonica pesantezza, sferrata non da un punto di vista marxistico, bensì da una concezione irrimediabilmente pessimistica dell’uomo, per sua natura egoista, disumano, brutale, e privo di scrupoli e incoronato di falsi idealismi inconcludenti.
Si tratta, se vogliamo, di una tipica posizione naturalistica. E se si è parlato piuttosto sforzatamente di espressionismo è stato per una metà dovuto alla tendenza, tipica di quel movimento, di annettersi il maggior numero possibile di territori limitrofi; e, per l’altra metà, a causa, effettivamente, di taluni innegabili caratteri di lontana parentela – successe la stessa cosa, in un ambito immensamente più elevato ed esteso, ad August Strindberg –: la esasperazione, tipicizzata fino all’inverosimile, dei personaggi, analoga, per intenderci, allo scorticante libellismo caricaturale dei disegni di Grosz; la icastica condensazione della scrittura, la deformazione parodistico-sarcastica delle azioni e del dialogo, spinti all’assurdo e così via. Mi rendo conto che sessant’anni fa la commedia possa essere apparsa scandalisticamente coraggiosa, un colpo d’ariete contro l’ottusa immobilità bempensante. Ma sessant’anni sono molti anche per una commedia celebre, d’una celebrità sulla quale, poi, non è nemmeno il caso di esagerare. Benché sfiorita, quella che conserva ancora è una certa carica aggressiva di eloquio.
Quanto al motivo che la mette in moto, figurarsi, in tempi di minigonna con biancheria disotto assente, che effetto può ancora fare l’incidente di una signora che, durante una cerimonia, perde le mutande. Ciò basta a circonfondere la protagonista e il suo ambiente di un’aura di elettrizzante esaltazione scandalosa, con tutta un’efflorescenza di sogni di gloria peccaminosa e di fantasie erotiche e romantiche, approdanti al più banale e squallido nulla di fatto nella realtà, a scorno ed onta di una meschina umanità sulla quale trionfa, tronfio e inconsapevole del pericolo corso, il meschino marito, impiegatuccio tutto intento al piccolo cabotaggio dei suoi miserevoli interessi pratici e arrampicatorii ai primi passi. Che, poi, alla resa dei conti si riducono ad affittar bene due camere ammobiliate, a “farsi” una zitella brutta come la notte e a potersi, finalmente, permettere il lusso di render madre la propria moglie, ed è la sola – o quasi – unghiata veramente sardonica che sopravvive nel copione.
Che l’autore, personalmente, si ritenesse il Molière della Germania, pazienza, affari suoi, sono i misteri dell’anima teutonica; ciò che riesce incredibile prima ancora che ridicolo è leggere a caratteri di scatola attraverso la “locandina” dello spettacolo che egli “sventolando la biancheria intima di una signora aggredisce con grottesca comicità la società borghese e apre la strada a Brecht”. Testuale! Ma che, scherziamo? E Becque e Ibsen e Strindberg e lo stesso nostro Praga, allora? Mah, follie da impegnati.
Il regista Luca Ronconi – scene e costumi, assai gustosi, sono di Enrico Job – ha preso alla lettera l’iperbole paradigmatica del copione, tradotto da Giorgio Zampa, imprimendogli il sopratono, alla lunga monotono, di una violenta frenesia farsesca; in ciò secondato a dovere da Sergio Fantoni eccellente artefice del ritratto denigratorio d’un’anima volgare; da Valentina Fortunato costretta tutta la sera ad aggirarsi in un assurdo grottesco, dalla lepidissima Pina Cei, applaudita a scena aperta, dall’elettrico Antonio Casagrande e dall’epilettico Roberto Herlitzka, in un tour de force massacrante. Il pubblico c’è stato e quindi tutto in regola.
© Sipario 2011

lunedì 4 aprile 2011

Miracolo economico


L'Italia che cambia from fuori quadro on Vimeo.

Lo sviluppo dovuto alla ricostruzione post-bellica porta, negli anni '50, alla piena occupazione, alla stabilità monetaria, ad un favorevole assestamento della bilancia dei pagamenti con l'estero e all'espansione dei consumi privati; il concorso di tutti questi fattori fa sì che, all'inizio dei '60, si assiste ad uno sviluppo vertiginoso dell'economia e zone come Carpi , prima solo agricole e di emigrazione, sviluppano una vocazione industriale "alla cinese".
Come descritto dal filmato, infatti, l 'imprenditore tipo carpigiano parte da ambulante, poi si mette in proprio, decentra il lavoro alle magliaie che lavorano a casa propria e raccoglie settimanalmente dai 40 ai 50 capi che vengono poi rifiniti in fabbrica; man mano che le richieste aumentano, la fabbrica si ingrandisce fino ad avere un centinaio di operaie.
Sia le interne che le esterne guadagnano circa 60.000 lire al mese e la conduzione familiare dell'azienda consente di non ricorrere a retribuzioni di personale esterno, consentendo forti economie di scala e flessibilità nella produzione.
Il limite di tale modello è che non si investe in ricerca e sviluppo o in marketing e distribuzione, ma, come è poi successo, con la delocalizzazione e la globalizzazione si finisce poi con l' essere espulsi dal mercato.


giovedì 24 marzo 2011

1969, Gheddafi prende il potere


Fine anni sessanta: un colpo di Stato in Africa e nel mondo arabo non fa notizia, ma si tratta di un Paese che è stato possedimento italiano e la personalità del colonnello che (dopo le prime incertezze emerge come il rais. il capo della rivoluzione, presenta caratteristiche non comuni. È così che la rivoluzione degli "ufficiali liberi" libici, autori il 1° settembre 1969 di un colpo di Stato classico, incomincia a essere seguita con interesse in Italia e nel mondo. E interesse desta soprattutto il presidente del Consiglio del comando della rivoluzione che ha rovesciato re Idris e la monarchia. Muhammar Gheddafi. molto giovane, molto ascetico, molto radicale, ma sconosciuto a tutti. Chi è Gheddafi? È una domanda» che neppure a distanza di tempo, nonostante i libri dedicati alla Libia rivoluzionaria e le biografie del suo leader, ha trovato una risposta convincente.
Di certo c'è solo che nel frattempo Gheddafi è diventato un protagonista, persino oltre i limiti oggettivi propri di un Paese con i mezzi umani. economici e tecnici della Libia.
Nel 1969 la Libia non è un Paese facile da descrivere e da decifrare: un Paese arretratissimo. con un immenso territorio semi-spopolato, con enormi somme a disposizione grazie al petrolio ma privo di quadri e di strutture sociali per utilizzare al meglio quella rendita ai fini di una politica di sviluppo. Re Idris, che è stato uno del protagonisti della resistenza anticoloniale,. appartiene a una classe e a una generazione che non hanno più molto da dire nel inondo arabo post-coloniale. Gheddafi e i suoi possono presentarsi a buon diritto come gli interpreti di una corrente che anche altrove sta prevalendo a spese del "vecchio” ordine .
Ma proprio l' insistito parallelo con Nasser — che Gheddafi vede come una specie di legittimazione valida per la Libia e per il mondo arabo — rischia di essere deviante, date le differenze fra Egitto e Libia e dato soprattutto il distacco che intercorre tra la rivoluzione libica del 1969 e la rivoluzione egiziana del 1952. I due grandi elementi di ispirazione dell'azione rivoluzionaria di Gheddafi sono il nazionalismo e la religione. Data la storia del popolo arabo, e dello stesso popolo libico, quei due elementi sono del resto strettamente associati, in ragione della funzione svolta dall' Islam in tutte le fasi dell' emancipazione nazionale. Per Gheddafi, però la dimensione a cui applicare quei valori non è circoscritta ai confini libici. Per questo Gheddafi — benché con poca fortuna — cerca di unificare la Libia con i Paesi vicini, rivolgendosi di volta m volta ali Egitto. al Sudan, alla Tunisia. Presentendo che la Libia è insufficiente alla sua leadership e alla carica della rivoluzione di cui è l' animatore, Gheddafi in un certo senso mette in palio la scomparsa della Libia pur di far avanzare un disegno di "liberazione" per tutto il mondo arabo e per tutto l' universo islamico. Islam e nazionalismo sono alla base anche della teoria della "terza via” che Gheddafi eleva a sistema per la sua rivoluzione e che codifica nel famoso Libro Verde.
Terza rispetto da una parte al capitalismo e dall'altra al collettivismo, ma orientata, per esplicita affermazione, al socialismo, appunto il "socialismo islamico" o "coranico ". un socialismo egalitario. partecipativo. che rifiuta l'interpretazione materialistica della storia e la lotta di classe. Non si può dire che tutti i presupposti ideologici nella pratica sono stati soddisfatti. Dovendo realizzare insieme la modernizzazione e la trasformazione della società, l'operazione si rivela quanto mai difficile, tanto più in una società dispersa come quella libica, toccala da una crescita tumultuosa, lacerata nei suoi valori originali dall'improvvisa ricchezza del petrolio. Da qui gli ondeggiamenti e le contraddizioni. Anche la concezione della leadership è stata rinnovala da Gheddafi. cosciente dei rischi di una direzione carismatica fine a se stessa, con una ardita alternanza fra "culto della personalità e "rivoluzione culturale" permanente allo scopo di coinvolgere il popolo tutto.
La rivoluzione libica ha effetti sconvolgenti nel Mediterraneo e nel Terzo Mondo per le iniziative del suo capo. Dopo i flirt a prima vista con l'Egitto di Nasser. anche i rapporti con i Paesi arabi sono spesso burrascosi. A Gheddafi si attribuisce una vocazione egemonica nei confronti dei Paesi a sud del Sahara e i suoi interventi nel Ciad sembrano essere una conferma. Sempre più cattivi si faranno col tempo i rapporti con gli Stati Uniti. che in certi periodi arriveranno a considerare la Libia
uno dei fattori eversivi principali a livello mondiale. Gheddafi si indirizzerà così verso un'alleanza impropria con l'Urss. che tuttavia non darà mai l' impressione di voler coprire tutte e sempre le politiche del colonnello. Resta il rapporto con l'India di odio-amore, di necessità, pieno di controversie, eppure più forte di tutte le crisi e di tutti gli strappi.

Giampaolo Calchi .Novati in 30 anni della nostra storia, 1969 p.31

domenica 13 febbraio 2011

Materialismo spicciolo



Nel 1960 l'ITALIA conta 50.045.000 ABITANTI  di cui Attivi 19.367.000 (38,7%), ripartiti in Agricoltura 29,1%, Industria 40,6%, Servizi 30,3 %
(per la prima volta l'industria e i servizi superano gli addetti all'agricoltura)
II prodotto lordo: Agricoltura 12,5% Industria 38,6%, Terziario 37,5%, Amministrazione pubblica 11,4 %
Nella popolazione italiana quelli  non attivi 30.678.000 ( 61,3 %).

Stipendio di un operaio circa 47.000 (30.000 un contadino, 12.000 una mondina) Costo giornale £ 30. Biglietto del Tram £ 35. Tazzina Caffè £ 50- Pane £ 140 al kg. Latte £ 90. Vino al litro £ 130. Pasta al kg £. 200. Riso la kg £ 175. Carne di Manzo
al kg. £ 1400. Zucchero al kg £ 245. Benzina £ 120.1 grammo di Oro £ 835. Un giorno di pensione tutto compreso a Rimini costa lire 600 (dall'Annuario Enit).
La paga oraria di un operaio è di 144 lire all'ora. Può acquistare con queste lire due etti di mortadella che costano 72 lire l'etto (quella più venduta (60%) marca Galbani, bollino rosso.c'é poi il bollino verde a lire 50 l'etto (30%) e i più
spendaccioni acquistano quella bollino oro, 90-100 lire etto.
(c'era il "miracolo" ma molti dicono che il "miracolo" era lo stare in piedi al lavoro 8-10 ore mangiando solo mortadella o la frittata di un uovo).

Nel 1969, alla fine del decennio,il governo i sindacati impongono orari, salarì, festività, commissioni interne, alle grandi imprese ed è una manna per i piccoli improvvisati imprenditori; si fregano le mani dalla gioia, non credono alle loro orecchie. I grandi complessi parrebbe che si stiano avviando verso il suicidio (ma è solo apparente, per non pagare "dazio") e loro stanno crescendo in competitività, in termini di profitti, e si stanno allargando a macchia d'olio sull'intero Paese che non aspettava altro.
 A pagare a caro prezzo questa trasformazione sono i lavoratori  dipendenti e tutte le categorie a stipendio fisso, quindi compresi gli impiegati.(finito questo biennio, fino al 1981 si "viaggia" in Italia con una media inflazionistica annua del 16-18%; cioè sono dolori anche per i colletti bianchi).
Territori a vocazione contadina si trasformano tutti in ambienti di piccoli imprenditori. Nascono i sottoscala, i piccoli capannoni, le case diventano laboratori, e gli italiani intraprendenti tutti a lavorare come nella prima rivoluzione industriale, 14 -16 ore al giorno come negri, ma questa volta spinti da un forma masochista che paga, procura / dane', i schei, le palanche, i soldi, il benessere; e presto diventa una vera e propria "malattia". Tutti a testa bassa. Una cultura questa che si diffonde, e che paradossalmente porta perfino a fare a meno della scuola. Le Università ora sono libere a tutti, ma 92 su 100 ci provano a fare qualche anno poi buttano la spugna. La scuola di classe ha partorito abilmente e demagogicamente gli illusi, i rinunciatari non si contano. Abituati i figli a vedere soldi facili, preferiscono subito continuare la strada dell'opulenza tracciata dal padre che molto spesso ha meno scuole del figlio, e ha sulla bocca il solito ritornello "guarda me, con solo le elementari, dove sono arrivato"...
Dunque un boom. Nascono ovunque supermercati, magazzini di vestiario, artigiani di maglie e maglioni, di biancheria, di scarpe e scarponi uno dietro l'altro, sarti che diventano subito industriali (pardon stilisti); ex confezionatori di scatolette di sapone in polvere diventano industriali chimici; ex pescatori, proprietari di alberghi e di stabilimenti balneari, e via verso quello straripamento di piccole aziende marginali. C'è' in crescendo tutto il terziario di massa.
Diffuso è poi il desiderio della proprietà' immobiliare, che viene subito soddisfatto con delle agevolazioni da capogiro, 1% sui mutui casa, comprese quelle al mare. Si concedono in un anno licenze per 6 milioni di vani, e tutto l'indotto spesso rabberciato e poco qualificato va alle stelle, sbanca l'economia. Il Pil del Terziario (ufficiale) per la prima volta nella storia d'Italia supera quello industriale, il 39,8 contro il 39,7, e presto lo supererà perfino con gli addetti, ha ora il 38,4% contro 44,4%, ma in dieci anni si porterà1 al 50,9% contro il 36,3%. Sta iniziando insomma in questo fine Anni Sessanta, un'altra Italia.
E il "proletariato"? Scomparso! E se sulla costa romagnola, ligure, toscana, veneta, friulana, si vendevano (si svendevano) i terreni delle vecchie colonie fasciste o demaniali o comunali come le noccioline firmando una barca di cambiali e mutui con le locali compiacenti banche (di partito), a Torino usando invece camion di cambiali e mutui, venivano concesse nel corso dell'anno 80.000 licenze di costruzioni; di più' che a Parigi e Londra messe insieme...

E chi non era già salito "sul carro", nel vedere l'amico o il parente catapultato nel benessere per il solo fatto di avere iniziata una qualsiasi ed estemporanea attività, non si disperava più di tanto, anche lui aspettava la sua occasione. Che per molti, moltissimi venne. I 170 venditori ricordati sopra di quella famosa ditta tedesca, entrati come dipendenti, dopo pochi anni (4) diventarono 170 imprenditori autonomi, con auto, magazzini, e la sede locale per proprio conto. L'azienda vendeva comunque, anzi più di prima, ma non aveva più 170 stipendi da pagare. Bene per l'azienda e bene per i dipendenti. L'azienda come si dice in questi casi, ebbe la moglie ubriaca e la botte piena. Infatti sotto la spinta utilitaristica i 170 mica facevano più le visite-vendita a vuoto, le facevano mirate e oculate non come quando erano dipendenti. Risultato: nell'azienda in due anni ci fu il raddoppio del fatturato, non aumentando i dipendenti ma eliminandoli del tutto. E gli ex dipendenti guadagnarono il quadruplo e anche il sestuplo. Cioè il plusvalore maggiore andava nelle tasche dell'ex dipendente, perche' era la distribuzione che costava. Marx questo non lo aveva proprio previsto, (qualcosa aveva accennato: che il capitale avrebbe trasformato la dignità umana in mercé di scambio. E sta avvenendo proprio questo: molti credono che ogni uomo ha un prezzo, ed entrati in questa ottica dimostrano che anch'essi hanno un prezzo, e prima o dopo qualcuno se li compra).
Il    modello "lavoratore sociale" andava bene come idea, è del resto quello che desidera ogni uomo in ossequio ai comandamenti cristiani (platonici) o sotto la spinta di un sentimento privilegiato (o ideologico quando ci sono "tempeste"
sociali), ma il modello "lavoratore imprenditore", "lavoratore proprietario", (si dissero una buona parte degli italiani a se stessi) era meglio; ci si avvicinava subito al modello edonistico "americano", all'utilitarismo ricardiano liberista e non al collettivismo stalinista comunista o maoista.

Sulla "rossa" Costa Romagnola queste idee in questo 1969 erano già molto chiare. Gli albergatori in inverno andavano a caccia nei Paesi dell'Est, facevano tante spedizioni in Russia, osservavano con curiosità i kolchoz, ma poi andavano a vedere com'erano fatti gli alberghi a Miami Beach. Il sig. Amati rientrò a Rimini e si mise in testa di costruire nel suo albergo anche la piscina (la prima su tutta la costa romagnola). Lo presero per pazzo "ma come siamo sul mare!?" dicevano gli altri. E lui, "non vi preoccupate, gli italiani non sono ne' russi ne' cinesi, vogliono fare gli americani, aspettate un paio d'anni e vedrete chi ha ragione. Non basta più' la pensioncina, bisogna creare il lusso, il divertimentificio, il paese dei balocchi" Quando il suo albergo con piscina cominciò a fare il tutto esaurito già a dicembre, allora capirono tutti cosa bisognava fare, e si adeguarono. Come?
In Romagna in questo 1969, le banche non avevano cassetti pieni di cambiali, avevano degli scaffali, dei saloni interi per riporle. montagne di pagherò con dietro dieci girate. In pochi anni tutte onorate dagli ex pescatori, in breve tempo proprietari di alberghi sempre sempre più grandi.
Al ritorno dai viaggi, alla sera, nei bar, o dentro le prime loro associazioni, fra i neo-albergatori, si poteva tastare il polso di questa nuova Italia che stava nascendo: liste zeppe di prenotazioni per i bagni di mare e di sole, e non bagni di sangue rivoluzionario e "Soli dell'Avvenire". Erano queste riunioni i veri sistemi informativi, finanziari economici e politici dell'Italia 1969. Alta scuola! Migliore di qualsiasi Università' di Economia e Commercio, di Scienze Politiche o di Sociologia, e di qualsiasi sede politica parlamentare dove si stavano facendo le semplicistiche "operazioni chirurgiche" della programmazione economica o le "nuove svolte" politiche (i centrosinistra zoppi).
Leggere in questo periodo gli opuscoli di Toni Negri o i fogli di Lotta Continua di Sofri, e poi guardare l'esplosione produttiva autonoma dei Veneti (cattolici ex contadini ma in un balzo subito a vocazione imprenditoriale) romagnoli o marchigiani (comunisti ex pescatori ma anche loro con in comune la stessa vocazione imprenditoriale) ecc. ecc. viene da sorridere; comparando certe ideologie con la realta1, sembrano scritti in un altra epoca. Uno storico del 2100 non ci si raccapezzerebbe nel leggere le une e contemporaneamente le altre.
A Bellaria (la preferita dagli operai Fiat) l'Albergo Margherita e tanti altri chiedono in questa estate 1969,1100-1300 lire al giorno . La metà di quanto si prende a Torino con la cassa integrazione (2400 lire). Basta questo dato per capire tutto il resto. Che gli italiani non erano ne' cinesi ne' russi. La vera Italia si stava sempre di più allontanando dal fascismo tradizionale e dal progressismo socialista. Il contesto sociale era mutato, si era unificato. Le differenze tra fascisti e antifascisti erano culturalmente, psicologicamente e anche fisicamente intercambiabili. Stava nascendo la "cultura di massa" che sbarazzandosi di quella ecclesiastica, moralistica e patriottica sempre di più' veniva catturata dalle nuove "leggi" della "nuova cultura", permissiva, tollerante; quella del consumo.

liberamente tratto da


http://cronologia.leonardo.it/storia/al969bhtm  

giovedì 13 gennaio 2011

Italia '61


Le mostre

Le Manifestazioni celebrative del Centenario si imperniano sulle tre Mostre principali che, programmate ed avviate dal Comitato Promotore Torinese, passarono successivamente a carico del Comitato Nazionale; ma nello stesso periodo il Comitato Torino '61 ne patrocino' numerose altre collaterali: la Mostra Filatelica, che ebbe vasta risonanza e fu allestita congiuntamente al Comitato Nazionale ed alla Cassa di Risparmio, la Mostra Nazionale di Pittura C.I.P.A., la Mostra biennale Pittori d'Oggi Francia - Italia, la Mostra del Mobile artistico piemontese, la Mostra della Calzatura e Pelletteria, l'Esposizione Internazionale Canina e l'Esposizione Internazionale Felina.
Ma tre in effetti furono le iniziative di grande impegno e di eccezionale interesse promosse dal Comitato Torino '61:






la Mostra degli Ori e Argenti dell'Italia Antica
la Mostra dei Fiori,



la Mostra della Moda, Stile, Costume:

In una rassegna storica e sociale degli ultimi 100 anni di vita italiana non poteva mancare un capitolo dedicato alla Moda; l'opportunita' di una mostra del genere fu sentita dal Comitato Torino '61 che, in base ad un bilancio precedentemente approvato, affido' l'alto e impegnativo compito al Cavaliere del Lavoro Pininfarina, con la piu' ampia liberta' d'azione. Egli si prefisse di realizzare una mostra di concezione nuova che avesse un'impostazione inedita ed originale e rappresentasse una svolta nella storia delle esposizioni.
Il tema iniziale della moda in genere fu esteso in "Moda, Stile, Costume", che offri' in tal modo un campo piu' ampio e concezioni piu' vaste per rappresentare il gusto e le espressioni dei mille motivi della vita contemporanea, dal turismo al lavoro, dallo sport allo spettacolo.
L'Esposizione si propose di illustrare quindi, per grandi pubblici e per elites raffinate, temi ispirati alla Moda, Stile, Costume, che hanno caratterizzato la vita civile italiana dal 1900 ad oggi, evitando intenzionalmente fatti storici, militari e politici.
Il Cav. del Lav. Pininfarina scelse personalmente i suoi collaboratori e si avvalse dell'opera di un gruppo di architetti capeggiati dal Prof. Cavallari-Murat.
La Mostra, organizzata a tempo di primato in quattro mesi, fu allestita nel Palazzo delle Mostre nel comprensorio di Italia '61 e venne inaugurata il 9 giugno 1961 dal Ministro Andreotti in rappresentanza del Governo.
Nei 14.000 metri quadrati del Salone, la Mostra Moda, Stile, Costume venne suddivisa in 5 temi fondamentali: La Moda Le Arti Figurative Le Arti Applicate Teatro-Cinema-Balletto, La Letteratura

ed in 12 sezioni:

Figura Rosa e nero, Forme Pure e Dimensioni Architettura Parametrica Compasso d'oro Il Pane Il Turismo lo Sport Il 1999 Le Grandi Esposizioni I Gioielli Affissi Murali. Oltre 500 cimeli, quadri di autori famosi, gioielli vennero richiesti ed ottenuti da musei e collezioni private, per un valore che si aggirava sui 10 miliardi; i soli gioielli vennero assicurati per tre miliardi.
Il settore "Moda" fu ripartito in quattro enormi vetrine, una per ciascuna delle seguenti epoche: 1900-1913, 1925-1935, 1935-1947, praticamente dal primo novecento al "new-look" di Christian Dior.
Questo quattro grandi periodi furono illustrati con i pezzi piu' rari e significativi appartenenti ai grandi nomi dell'aristocrazia ed alle personalita' di maggior rilievo del mondo dello spettacolo.
Me' furono trascurati diversi settori della moda minore, attraverso una curiosa esemplificazione di cappelli, ombrelli, scarpe, profumi, ecc.
La sezione delle "Arti Fiugurative" e delle "Arti Applicate" traccio' un conciso panorama delle tendenze pittoriche e di scultura del nostro secolo: realismo e futurismo, la metafisica, l'espressionismo, l'astrattismo, l'informale. Gli ordinatori posero in confronto visivo le opere d'arte ed i prodotti dell'artigianato e dell'industria.
L'itinerario dello spettacolo dal 1900 ad oggi, fu ordinato in tre settori: "Teatro-Cinema-Balletto".
Del primo si ricordo' l'esordio contrastato del teatro libero di Antoine a Parigi, la parentesi dell'espressionismo, passando quindi dai grotteschi e dalle correnti spirituali alla nuova corrente del realismo. Per il Cinema il cammino ebbe inizio con la retorica di "Cabiria" per giungere, attraverso l'antiretorica di "Sperduti nel buio" e "Assunta Spina", al realismo. Per il settore della "Letteratura" si raccolsero numerose testimonianze letterarie tendenti a stabilire un rapporto diretto tra il pubblico e la letteratura. Il pubblico, in piena liberta' di scelta, pote' leggere, su gigantesche pagine di otto libri, brani di opere di prosatori dell'ultimo 800 sino ai maggiori contemporanei stranieri ed italiani ed ascoltare, premendo i tasti di due juke-boxes, la voce autentica di poeti e di fini dicitori illustri: Carducci, Pascoli, Pavese, Montale, Trilussa, Quasimodo.
"Figura": blanda avventura disegnata di quindici chilometri di velo sotto l'invito ambiguo ed affascinante di dterminare una forma-figura.
Magia, spiritismo, superstizione, psicanalisi, frivolezze furono i temi trattati nell'interessante padiglione "Rosa e Nero" intesi quale espressione di un convenzionalismo cosi' potente, a volte, da sovvertire costumi e gusti.
Nel settore "Forme Pure e Dimensioni" furono presentati, oltre a documenti fotografici, alcuni interessanti modelli di forme geometriche pure, derivate da espressioni grafiche di equazioni matematiche.
"L'Architettura Parametrica" si pose come una disciplina tendente ad immettere nel vivo della struttura del pensiero attuale, specie se scientifico, i fenomeni dell'architettura e dell'urbanistica.
Il "Compasso d'Oro" concorso destinato a premiare i migliori progettisti dell'industrial design, radunava le opere premiate dall'inizio del concorso ad oggi.
Curiosissima inoltre la mostra del "Pane", con tremila diverse forme in uso nelle varie regioni italiane e laboriosamente radunate per significare che anche nell'artigianato piu' umile esistono analogie con i gusti correnti e con l'arte del momento.
Su uno sfondo lungo 60 metri, raffigurante un convoglio di tutti i mezzi di trasporto, il racconto del "Turismo" si articolo' nei suoi nuclei piu' evidenti: dalla gondola al panfilo, dalla carrozza letto alla capsula spaziale, dal turismo romantico a quello di domani, l'astronautica.
Insieme al turismo fu presentato o "Sport", uno dei fenomeni piu' vasti del nostro tempo. Nella Mostra risulto' il contrasto tra gli aspetti tradizionali di un determinato sport e le successive modifiche e meccanizzazioni.
Per il "1999" furono scelte, tra le infinite possibili, alcune immagini sul filo del paradosso, che riflettessero, con immediatezza e nel contempo con una sfumatura di ironia, l'allucinante suggestione dell'epoca verso la quale siamo proiettati.
A ricordo delle "Esposizioni" passate, di importanza mondiale, furono scelti i cataloghi delle esposizioni del 1900, 1925, 1935, 1958, cioe' le epoche "liberty", "cubista", "novecento", ed Expo' 1958" come simboli di un costume e di un gusto transitorio.
Ampia e ben documentata fu la rassegna dell'"Affisso Murale", il segno pubblicitario piu' diffuso, che si valse di autentiche opera d'arte delle piu' note firme europee.
La Mostra rappresento' un'opera originale, fantasiosa e stimolante, che unendo la sottile poesia dei ricordi al fascino delle cose ignote di un futuro gia' cominciato, seppe mettere in evidenza la vera sostanza dell'uomo, senza immergersi nel convenzionalismo e nel gratuito. Raccontandoci le passioni, le infatuazioni e òa genialita' di questo secolo, attraverso le innumerevoli testimonianze della moda, dello stile e del costume, seppe darci cosi' l'esatta misura dell'uomo nel suo tempo. La stampa e la critica internazionali seguirono con vivo interesse e sottolinearono con lusinghieri consensi la Mostra Moda, Stile e Costume, definendola una delle piu' riuscite delle celebrazioni del Centenario.
Di essa resta un vivo ricordo in un film ed in un interessantissimo volume, realizzati a carico e cura del Cav. del Lav. Pininfarina.