martedì 5 aprile 2011

Critica militante


Il testo è stato portato in scena di recente dalla regista Monica Conti (forse in occasione del centenario ).
Quello che ci interessa in questa sede è riportare un testo di critica dell'epoca, che potremmo definire militante e non accomodante, tanto per far sentire lo spirito del 1969.

Mutande (Le)
di Karl Sternheim
La Notte, 28 marzo 1969
Salvo errori ed omissioni, questa medesima commedia dal titolo che è tutta una promessa di palpabili godurie: Le mutande (da donna, beninteso!) l’abbiamo vista alcune estati fa all’Odeon, a firma Gigi Lunari, recitata in  milanese annacquato da Piero Mazzarella e Tino Scotti, sotto la dizione – oh, finezza! – ingentilita dal diminutivo e involgarita dal plurale: Per un paio di mutandine. Allora, dava il suono di una ritardataria pochade dialettale, fatta alla buona con materiali casalinghi unicamente per il refrigerio serotino dei bravi meneghini con le mogli al mare, rimasti nell’asfalto della città ad arrostirsi. Ora che la si dà nuovamente, sullo stesso palcoscenico, dalla Compagnia Fortunato-Fantoni, possiamo rivelare che, in realtà, si tratta di un copione germanico preespressionista, scritto dall’ebreo tedesco Karl Sternheim, qualcosa come cinquantotto anni fa, nel 1911; a intenzione crudamente satirica, figurante quale prima giornata di una trilogia che racconta la storia di una famiglia piccolo-borghese, morsa dalla tarantola dell’ascesa sociale; e che, lungo un sardonico itinerario di compromessi, ipocrisie, do ut des, colpi bassi e via discorrendo, un gradino dopo l’altro, dà la scalata alla ricchezza, alla considerazione morale, alla potenza economica, fino ad assidersi al banchetto del grande mandarinato industriale che dominava la Germania guglielmina ante prima guerra mondiale: quello, sapete, che da un verso fabbricava le bambole di porcellana che chiudevano gli occhi; e, dall’altro, i cannoni più potenti del mondo da accatastare in casa per il momento buono, battezzandoli col nome gentile delle signorine Krupp.
Quella dello Sternheim è una satira del sistema fatta, come si direbbe oggidì, da un “integrato”, all’interno del sistema stesso; era figlio di un banchiere, pensate un po’. Satira della borghesia compiuta da un borghese, in altre parole: uno dei tanti cadetti ribelli, i contestatori del tempo, nulla è nuovo sotto la volta celeste. Feroce critica sociale non priva di teutonica pesantezza, sferrata non da un punto di vista marxistico, bensì da una concezione irrimediabilmente pessimistica dell’uomo, per sua natura egoista, disumano, brutale, e privo di scrupoli e incoronato di falsi idealismi inconcludenti.
Si tratta, se vogliamo, di una tipica posizione naturalistica. E se si è parlato piuttosto sforzatamente di espressionismo è stato per una metà dovuto alla tendenza, tipica di quel movimento, di annettersi il maggior numero possibile di territori limitrofi; e, per l’altra metà, a causa, effettivamente, di taluni innegabili caratteri di lontana parentela – successe la stessa cosa, in un ambito immensamente più elevato ed esteso, ad August Strindberg –: la esasperazione, tipicizzata fino all’inverosimile, dei personaggi, analoga, per intenderci, allo scorticante libellismo caricaturale dei disegni di Grosz; la icastica condensazione della scrittura, la deformazione parodistico-sarcastica delle azioni e del dialogo, spinti all’assurdo e così via. Mi rendo conto che sessant’anni fa la commedia possa essere apparsa scandalisticamente coraggiosa, un colpo d’ariete contro l’ottusa immobilità bempensante. Ma sessant’anni sono molti anche per una commedia celebre, d’una celebrità sulla quale, poi, non è nemmeno il caso di esagerare. Benché sfiorita, quella che conserva ancora è una certa carica aggressiva di eloquio.
Quanto al motivo che la mette in moto, figurarsi, in tempi di minigonna con biancheria disotto assente, che effetto può ancora fare l’incidente di una signora che, durante una cerimonia, perde le mutande. Ciò basta a circonfondere la protagonista e il suo ambiente di un’aura di elettrizzante esaltazione scandalosa, con tutta un’efflorescenza di sogni di gloria peccaminosa e di fantasie erotiche e romantiche, approdanti al più banale e squallido nulla di fatto nella realtà, a scorno ed onta di una meschina umanità sulla quale trionfa, tronfio e inconsapevole del pericolo corso, il meschino marito, impiegatuccio tutto intento al piccolo cabotaggio dei suoi miserevoli interessi pratici e arrampicatorii ai primi passi. Che, poi, alla resa dei conti si riducono ad affittar bene due camere ammobiliate, a “farsi” una zitella brutta come la notte e a potersi, finalmente, permettere il lusso di render madre la propria moglie, ed è la sola – o quasi – unghiata veramente sardonica che sopravvive nel copione.
Che l’autore, personalmente, si ritenesse il Molière della Germania, pazienza, affari suoi, sono i misteri dell’anima teutonica; ciò che riesce incredibile prima ancora che ridicolo è leggere a caratteri di scatola attraverso la “locandina” dello spettacolo che egli “sventolando la biancheria intima di una signora aggredisce con grottesca comicità la società borghese e apre la strada a Brecht”. Testuale! Ma che, scherziamo? E Becque e Ibsen e Strindberg e lo stesso nostro Praga, allora? Mah, follie da impegnati.
Il regista Luca Ronconi – scene e costumi, assai gustosi, sono di Enrico Job – ha preso alla lettera l’iperbole paradigmatica del copione, tradotto da Giorgio Zampa, imprimendogli il sopratono, alla lunga monotono, di una violenta frenesia farsesca; in ciò secondato a dovere da Sergio Fantoni eccellente artefice del ritratto denigratorio d’un’anima volgare; da Valentina Fortunato costretta tutta la sera ad aggirarsi in un assurdo grottesco, dalla lepidissima Pina Cei, applaudita a scena aperta, dall’elettrico Antonio Casagrande e dall’epilettico Roberto Herlitzka, in un tour de force massacrante. Il pubblico c’è stato e quindi tutto in regola.
© Sipario 2011

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