giovedì 30 aprile 2009

1° maggio 1961

Fidel Castro proclama Cuba la prima repubblica democratica socialista d'America.



La rivoluzione deve fare in modo che tutto il settore di artisti e di intellettuali non genuinamente rivoluzionari, trovi nell'ambito della rivoluzione un terreno di lavoro, e che il loro spirito creatore, anche quando non siano scrittori e artisti rivoluzionari, abbia l'opportunità e la libertà di esprimersi, dentro la rivoluzione. Ciò significa che dentro la rivoluzione, tutto; contro la rivoluzione, nulla. La rivoluzione non può pretendere di asfissiare l'arte e la cultura, dato che uno dei propositi fondamentali della rivoluzione è
lo sviluppo dell'arte e della cultura, affinchè l'arte e la cultura divengano un patrimonio reale del popolo. E come vogliamo per
Il popolo condizioni migliori di vita materiale, per il popolo chiediamo anche condizioni migliori di vita spirituale: un elevamento del livello culturale generale.
In tutte le manifestazioni dell'arte bisogna sforzarsi di parlare al popolo, ma nello stesso tempo bisogna fare tutto ciò che è possibile perché il popolo possa capire sempre di più e sempre meglio.
Stiamo spingendo al massimo
lo sviluppo della cultura e proprio in funzione della rivoluzione perché LA RIVOLUZIONE SIGNIFICA, PRECISAMENTE, PIÙ ARTE. Chiediamo che gli intellettuali pongano il loro granello di sabbia in quest'opera che sarà un'opera della nostra generazione che tutti ci comprende: i barbuti come gli sbarbati, coloro che hanno tanti capelli, i calvi e chi ha la testa bianca. E' un'opera di noi tutti: stiamo per scatenare una guerra contro l'incultura.
Lascia che ogni artista scriva o dipinga quello che vuole, e se ciò non serve a diffondere la cultura tra il popolo, allora questo è
il suo problema.
(PAROLE AGLI INTELLETTUALI, di Fidel Castro, 1961).

martedì 28 aprile 2009

Cantautori e complessi

Col boom economico aumentano le capacità di spesa anche dei giovani e l'industria discografica non tarda ad accorgersene: i bar si riempiono di jukebox (e di flipper) e nelle case fanno la loro comparsa i primi mangiadischi.

A questo proposito va detto che la tecnologia cambia sia le modalità di fruizione della musica, sia quelle di esecuzione: per intenderci al cantante accompagnato dalla grossa orchestra (o big band) si sostituisce il piccolo complesso sul modello jazz/rock (il beat arriverà più tardi).

L'ascolto della musica non avviene più nel salotto dei genitori, ma al bar, sulla spiaggia, in camera propria, alle feste grazie alla portabilità del mangiadischi, il che favorisce le aggregazioni giovanili lontano dallo sguardo dei genitori e le vendite del 45 giri che soppianta decisamente il 78 di papà, diventando l'icona della nuova generazione.

All'interno del panorama musicale italiano si evidenzia poi una prima distinzione (ne seguiranno poi infinite altre, fino alla frammentazione attuale): quella tra la canzone "d'autore" ed i complessi; la prima privilegia il testo, la seconda la musica.

La distinzione non è subito così netta, esempio emblematico è Luigi Tenco che parte dall'influenza dei chansonniers francesi (Brassens, Ferré, Brel), come poi De André e la "scuola genovese" in genere, pur facendo contemporaneamente parte di un complesso: i Cavalieri: Luigi Tenco voce e sax, Franz Reverberi vibrafono, Paolo Tomelleri clarino basso, Enzo Jannacci pianoforte, Nando De Luca batteria.



Già in questo testo "Cara Maestra" del 1962 c'è la rottura con lo schema tradizionale delle strofette e del ritornello, anche se si rispetta ancora il metraggio canonico dei 3 minuti che sarà abbondantemente superato in seguito con l'affermarsi del LP (20 minuti per lato) a cui si affideranno, praticamente in esclusiva i cantautori più affermati, lasciando il 45 alle canzoni più "commerciali".

Inutile sottolineare l'antiautoritarismo del testo che diventerà una costante del decennio.

Nota: La c.d. scuola genovese fu una invenzione di Nanni Ricordi e comprendeva, oltre a Luigi Tenco, Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e Fabrizio De André.

lunedì 27 aprile 2009

La congiuntura

Nel 1960 il governatore della Banca d'Italia Donato Menichella (successore di Luigi Einaudi e predecessore di Guido Carli alla guida dell'istituto) si dimette dopo aver portato la Lira al traguardo di migliore valuta (Oscar del Financial Times).

Sono gli anni del boom economico perfettamente tratteggiato dalla commedia all'italiana, il genere cinematografico che si afferma negli anni '60 grazie a solide sceneggiature e agli attori definiti "colonnelli" (Gassman, Tognazzi, Manfredi) e da una serie di solidi caratteristi (cfr.link allegato).



Se la commedia mette in scena personaggi popolari che tentano la strada di una non conformistica sopravvivenza attraverso l’arte dell’arrangiarsi, allo stesso modo racconta di adattamenti grotteschi fatti da una società di piccoli seduttori caserecci, arrampicatori sociali, piccoli industriali e avventurieri borghesi sui quali fa leva il mito del miracolo economico e che alla fine rimangono puntualmente frustrati.

domenica 26 aprile 2009

Programma 101

Per chi non fosse convinto di quanto affermato nel post precedente, ecco un brano tratto dal libro autobiografico di Pier Giorgio Perotto, costruttore negli anni '60 del primo computer della storia:

" L'incontro con la General Electric, che dal 1956 era anch'essa entrata nel campo dei calcolatori elettronici, per un gruppo che era assolutamente determinato a disfarsi della elettronica, fu quindi quasi obbligato. Va però precisato che tale determinazione non era mai stata esplicitamente o ufficialmente dichiarata nel corso delle trattative che avevano portato alla costituzione del gruppo di intervento; la sensazione che si andasse in quella direzione emerse direi quasi a livello umorale. Per giunta quando un nuovo management, non precisamente annoverabile tra i più fantasiosi, viene messo a capo di una società, e' abbastanza ovvio attendersi come minimo un messaggio di cambiamento e non proprio nel senso di una audace proiezione verso il futuro.

La General Electric era un vero colosso, al terzo posto in America per numero di dipendenti e al quarto per fatturato. Il cervello della divisione informatica era a Phoenix in Arizona, dove ben 4000 ricercatori progettavano le linee di calcolatori di fascia più alta. Ma lo sforzo che la società aveva avviato in questo campo non aveva dato ancora risultati quantitativamente soddisfacenti: la quota di mercato era minima, dell'ordine del 2%, non solo rispetto al gigante IBM col 65% del mercato, ma anche rispetto agli altri concorrenti del settore, come Control Data, Sperry Rand, RCA. Era quindi logico attendersi che essa desiderasse annettersi quote di mercato attraverso delle acquisizioni, visto che le sue disponibilità finanziarie erano di tutto rispetto.

Un altro aspetto va ancora ricordato: la General Electric era stata una delle aziende che più aveva contribuito a creare il pensiero e la prassi della pianificazione strategica. Essa aveva già attuato negli anni 50 una struttura basata su cinque divisioni, dotate di larga autonomia, che spaziavano in tutti i settori più importanti dell'elettrotecnica, per arrivare agli impianti nucleari, alle turbine a gas, alle apparecchiature spaziali. Era quasi inevitabile che il gigante non potesse star fuori dal settore informatico, che sembrava sulla carta possedere tutti i quattro quarti dei requisiti richiesti per un brillante sviluppo futuro.

In conclusione la General Electric avviò trattative, sia in Francia con la Bull, che in Italia con la Olivetti, per una operazione che sembrava da manuale per un'azienda che voleva bruciare le tappe di una espansione a livello mondiale; anch'essa si accorgerà solo più tardi che tra la teoria e la pratica c'e' di mezzo il mare.

L'annuncio dell'accordo con la General Electric venne diramato il 31 agosto del 1964 con uno scarno comunicato della direzione Olivetti, nel quale non si parlava affatto di cessione, ma semplicemente della costituzione di una società mista denominata "Olivetti-General Electric s.p.a. " ovvero OGE, alla quale veniva conferita la divisione elettronica. Ma le trattative erano cominciate appena la nuova direzione fu insediata; alcuni dicono ancora prima, in gran segreto.

In un primo tempo all'interno della divisione pensammo più che ad una cessione a qualche forma di accordo paritetico. A pensare questo eravamo indotti dall'energica smentita della direzione Olivetti ad un volantino emesso dalle commissioni interne, nel quale si affermava che erano state prese le decisioni di: " abbandonare l'attività' elettronica e di ricerca; di mantenere, trasferendola ad Ivrea, l'attività' del gruppo dell'ingegner Perotto, relativa alle piccole macchine ". " Dichiarazioni assolutamente false " tuonava la smentita, quasi con sdegno.

Un ulteriore rafforzamento delle nostre speranze derivava dall'atteggiamento fiducioso ed ottimista assunto da Roberto Olivetti, della cui buona fede non avevamo ragione di dubitare e che era sempre stato sincero difensore della elettronica. Egli vedeva nell'accordo con un colosso come la General Electric, con immensi laboratori di ricerca, un modo, forse l'unico in quella situazione, di rilanciare l'elettronica e di ricavare un know-how che si sarebbe potuto riversare sull'intera Olivetti. Alla luce di quanto poi e' successo, devo concludere che egli si ingannò oppure, più verosimilmente, che fu ingannato. Essendo Roberto, di tutta l'alta direzione Olivetti l'unico che ne capisse qualcosa di elettronica, coloro che avevano in mano la regia dell'operazione pensarono certamente che era preferibile non averlo contro, prospettandogli intenzioni molto più idilliache di quelle che l'accordo avrebbe poi fissato.

Ma la realtà vera di quanto si andava tramando emerse, almeno ai miei occhi, molto chiaramente nel viaggio a Phoenix che, con una delegazione di colleghi della divisione elettronica, facemmo alla fine di giugno del 1964.

Visitare l'Arizona nel mese di luglio, col caldo soffocante del deserto, non e' per niente raccomandabile come gita turistica distensiva; ma certamente più opprimente fu il clima che improntò i colloqui con gli americani. Anche se le forme e i cerimoniali furono cordiali, molto chiare furono le espressioni di quasi assoluto disinteresse o addirittura di insofferenza per la ricerca fatta a Pregnana. Non essendo i nostri interlocutori ne' diplomatici, ne' avvocati, ma tecnici, essi senza troppi peli sulla lingua ci fecero capire che l'unico interesse era costituito dalla acquisizione di una base commerciale in Italia per la distribuzione dei calcolatori progettati a Phoenix. Questa sensazione era poi rafforzata dal tipico atteggiamento americano di considerare pressoché inesistente il resto del mondo e in particolare di non attribuire all'Italia alcuna particolare credibilità al di fuori del design e di poche altre attività del tipo "genio e sregolatezza ".

Essendomi fatta questa convinzione, fui preso dai più funesti presagi sul destino della divisione elettronica in generale e della attività del mio gruppo in particolare. Io mi stavo infatti occupando effettivamente di piccole macchine e di unità di ingresso-uscita dei dati negli elaboratori, come lettori di caratteri ottici e magnetici, ossia di tutte quelle apparecchiature che potevano costituire un ponte tra la informatica dei grandi elaboratori e i tradizionali prodotti di Ivrea, però da qualche tempo mancava completamente un preciso indirizzo e nessuno si preoccupava di dirci che cosa dovevamo fare. D'altra parte era ai miei occhi chiaro che alla General Electric nulla importava delle piccole macchine.

Cercai ripetutamente di parlarne con Roberto, ma lo trovai poco disposto a condividere il mio pessimismo. Ebbi l'impressione che egli fosse rimasto abbagliato dalla potenza degli americani, potenza che essi non evitarono certo di esibire, facendoci visitare i loro grandiosi laboratori di ricerca, gli stabilimenti di produzione dei grandi elaboratori della linea Ge-600, prospettandoci piani di sviluppo del settore finalizzati a sconfiggere il colosso IBM, e così via. In fondo sembravano volerci infondere un senso di impotenza, facendo risaltare il divario con le nostre scarse risorse, il nostro limitato mercato italiano, la nostra arretratezza.

Devo dire che questo senso di superiorità e anche di arroganza che caratterizzava il clima delle trattative ( che per la parte a noi riservata si limitavano a definire qualche aspetto di secondaria importanza ), da una parte mi dava la netta sensazione che i giochi fossero già fatti, dall'altra mi spinse, perso per perso, ad assumere un atteggiamento di bellicosa opposizione all'accordo, a tutti i tavoli ai quali ebbi la ventura di essere chiamato. Cercavo in fondo di salvare qualche spazio residuo per il mio lavoro e per quello dei miei collaboratori.

La conclusione fu che gli americani fecero sapere, neppure tanto discretamente, a Roberto Olivetti che non sarebbero stati scontenti se l'ingegner Perotto, pur facendo parte del laboratorio elettronico di Pregnana che veniva loro ceduto, se ne fosse rimasto con la Olivetti. E così puntualmente avvenne.
"

Il resto della storia, lo trovate al link del titolo

sabato 25 aprile 2009

Verso la luna




Il decennio si apre nel 1961 col primo uomo nello spazio, il sovietico Yuri Gagarin e si conclude con lo sbarco americano sulla luna nel luglio 1969.

Qui presentiamo un curioso e forse poco conosciuto antefatto tutto italiano, quello dei fratelli torinesi Judica Cordiglia.

Due considerazioni a margine, che avremo occasione di riprendere in seguito:

- la prima riguarda l'enorme prospettiva che si apriva con l'inizio dei viaggi spaziali: sembrava che lo sviluppo ipotizzato dalla fantascienza fosse ormai a portata di mano e questo forniva una ulteriore prospettiva di sviluppo alle giovani generazioni; adesso sappiamo che così non è stato e, se si fosse almeno un po' curiosi ci si dovrebbe domandare perché.

-la seconda che l'Italia è ricca di personaggi che si possono tranquillamente definire geniali, ma che nessuno conosce perché i loro talenti vengono ignorati, quando non addirittura osteggiati (Guglielmo Marconi, per citare uno che ha avuto successo, dovette andare a Londra a brevettare la radio, perché al nostro ministero gli risposero che quella curiosità non poteva interessare a nessuno, visto che avevamo già il telegrafo).

domenica 19 aprile 2009

La guerra fredda

La contrapposta visione del mondo che si sviluppò negli anni della Guerra Fredda segnò non solo la scacchiera geopolitica mondiale, ma anche le coscienze e l’immaginario collettivo.

Personalmente ricordo le manifestazioni contro gli esperimenti nucleari nell'atmosfera (sì, avete letto bene!) e le conseguenti sospensioni scolastiche, retroattive e col 7 in condotta in un mondo che di lì a poco avrebbe visto ben altro.

Il vagheggiato migliore dei mondi possibili si presentava attraverso due opposte visioni: da una parte l’utopia del socialismo reale, crollata definitivamente nel 1989 assieme al muro di Berlino; dall’altra le paillette del libero mercato, drasticamente ridimensionato dall’attuale crisi economica globale.

Naturalmente il campo militare non fu l’unico in cui si giocò la partita per la supremazia planetaria. Un decennale terreno di sfida fu la conquista dello spazio, inaugurata nel 1961 da Juri Gagarin, il primo cosmonauta della storia.

Nemmeno l’architettura rimase immune alle logiche della “cortina di ferro”. La sfida coinvolse sia la progettazione di case popolari di stampo razionalista - a iniziare da quelle di Le Corbusier - che l’architettura monumentale, come nel caso della colossale torre della televisione moscovita, progettata nel 1967 da Nikolai Nikitin.

Chi volesse approfondire, può visitare la mostra londinese attualmente ospitata al MART
dal 27 marzo al 26 luglio 2009

La Guerra Fredda - Cold War. Arte e design in un mondo diviso 1945–1970
a cura di David Crowley e Jane Pavitt
MART - Museo di Arte moderna e contemporanea di Rovereto e Trento
Corso Bettini, 43 - 38068 Rovereto
Orario: da martedì a domenica ore 10-18; venerdì ore 10-21
Ingresso: intero € 10; ridotto € 7
Catalogo disponibile
Info: tel. 800397760 / +39 0464438887; fax +39 0464430827; info@mart.trento.it; www.mart.trento.it

venerdì 17 aprile 2009

Cambiare il mondo!

Nella primavera del 1963, un gruppo di giovani intellettuali fondava a Firenze il Gruppo 70. Nello stesso anno, alcuni di loro danno vita a uno dei movimenti artistici più innovativi e originali della seconda metà Novecento, la POESIA VISIVA. Interessati alle moderne modalità di comunicazione di massa, questi artisti si proposero di trasformare la più pervasiva delle sue forme, la pubblicità, in poesia, con "l'utopia di cambiare il mondo".

In mostra una selezione di opere tra le più rappresentative degli anni 1963- 68, realizzate con la tecnica del collages. Opere di grande attualità e dal forte impatto come: "Sino in fondo" (1966) di Michele Perfetti, dove parole come sogni, amore, verità.. vengono risucchiate da un cesso che le espelle frantumate; "L'appetito vien mangiando" (1963) di Lucia Marcucci; "Catherine Spaak" (1964) di Luciano Ori; "Da Martin Luther King" (1968) di Roberto Malquori, dove una tipica pin up nuda, degli anni Sessanta,appare ricoperta di frasi del famoso uomo di pace; "Poesia trovata. La Nazione" (1967) di Eugenio Miccini; "Quel lunedì mattina" (1965) Lamberto Pignotti e "Top Secret" (1965) di Ketty la Rocca.

"Noi avevamo l'utopia di cambiare il mondo attraverso la poesia - dice Michele Perfetti nell'intervista in catalogo - [.] la poesia visiva costringe a guardare il mondo con occhi diversi. Ecco, da noi c'era questa utopia, contribuire a cambiare il mondo facendolo vedere con occhi diversi".
Nella primavera del 1963 e l'anno successivo, a Firenze, si tennero al Forte di Belvedere due convegni internazionali "Arte e Comunicazione" e "Arte e Tecnologia" che segnano la nascita del Gruppo 70. Fondato da artisti di diversa formazione, i poeti Lamberto Pignotti e Eugenio Miccini, i musicisti Sylvano Bussotti e Giuseppe Chiari, i pittori Loffredo, Antonio Bueno e Alberto Moretti, a cui si aggiunsero ben presto diversi pittori Roberto Malquori, Lucia Marcucci, Luciano Ori, Ketty La Rocca, Michele Perfetti ed altri.
Nello stesso anno, alcuni di loro si uniscono per dar vita ad una nuova corrente artistica, che Pignotti e Miccini chiameranno Poesia Visiva: ".si chiama così perché nasce dalla poesia - come sostiene Lamberto Pignotti nell'intervista in catalogo - in fondo è quel tipo di poesia che, stanca di stare nei libri e nella bocca di chi la vuol dire, si sente a mal partito e quindi trova rifugio nel quadro, nella performance, anche se ancora non si chiamava così, nella poesia spettacolo". Un movimento, certamente originale, nonostante i dichiarati 'debiti' con la cultura più avanzata di quegli anni (Nouveaux Réalisme, New-Dada , gli happening di Kaprow e le esperienze musicali di John Cage).
Per lo più fiorentini, ma in contatto con le punte più avanzate della cultura internazionale, gli artisti della Poesia Visiva segnarono uno dei momenti di maggior vivacità della cultura fiorentina del secondo dopoguerra, in cui affondano le radici di molti linguaggi della contemporaneità. Fin dall'inizio, la Poesia Visiva, instaura un rapporto stretto con i mezzi di comunicazione di massa, ne assume i modelli e il linguaggio, ma ne stravolge il senso, denunciandone il ruolo negativo nel contesto sociale. Quella che poi Eugenio Miccini definirà una vera e propria "guerriglia semiologica".
"Noi siamo dei fuggiaschi - scriveva Miccini - o degli evasi dalla letteratura e dalla storia dell'arte, abbiamo cercato di vedere quali erano i linguaggi reali che sono effettivamente parlati dalla società. [.] il nostro scopo era di parlare veramente, di vomitare contro i padroni della parola e quelli dell'immagine".
Come la Pop Art, seppure con una posizione più marcatamente concettuale ed ideologica in opposizione al sistema, il movimento della Poesia Visiva si pose quindi in posizione critica nei confronti della massificazione culturale operata dai media, con l'intenzione di attivare nel pubblico la capacità di critica.

sabato 11 aprile 2009

Presentazione

Credo che gli anni '60 del secolo scorso siano stati un punto di svolta, non solo per la mia generazione (nel 1961 finivo le medie, nel 1966 il liceo e nel 1970 l'università), ma anche dal punto di vista storico.

Tuttavia, visto che questo è un blog e non un saggio, non possiamo scordare la musica o il cinema di quegli anni: tutto cambiava e ogni sperimentazione sembrava possibile (ovviamente il 1968 ebbe la sua parte in tutto questo).

Quello che mi sembra importante ricordare oggi, in questa epoca così cinica ed egoista, sono però certi valori di speranza, di giustizia, di appartenenza difficili da capire per chi non ha vissuto quei tempi dall'interno

Speriamo con questo blog di restituirne il ricordo.